4/17/2012

La terra e il seme

                                                                                                                                                                                                                                                                     





La terra e il seme

Romanzo giallo


di Petrosino Prosperi Raffaele

Da un’idea dell’Angelo Nero















Tel. 3280084338







PERSONAGGI PRINCIPALI




LUIGI FEBBRAIO: agente speciale

MICHELE MARCHESI: capitano del RACIS
PAOLO PIOVANO: colonnello dei carabinieri
PAOLO MENESTRELLI: carabiniere autista del RACIS di Roma
MICHELE MATTHAUS: serial killer (la terra)
STEFANIA GIACOBINI: moglie di Borchia Giovanni
BORCHIA GIOVANNI: architetto di Spigno Vecchio
MASSIMILIANO CORTECCIA: delinquente
di Roma (pedofilo)
TOMMASO FORTE: bambino del quartiere Santa Rita, Roma (il seme)
KATIA RIGHELLO: prostituta romana
LEONIA PANDOLFI: prostituta romana
OCELLI SANDRA: madre di Tommaso
GIOVANNI CONFALONIERI: magistrato della procura di Roma





“Taglia la testa al gallo, se ti becca nella schiena…..Come un illuso io vorrei che fosse vero, che ogni mano che apre il tuo ventre fossi tu a partorirla…
E allora taglia la testa al gallo, se ti becca nella schiena……”

                                                                             
  IVAN GRAZIANI
                                  (dall’album “Agnese dolce Agnese“)










Doveva essere un gran mondo quello degli adulti, pensava in quel piccolo ma immenso pianerottolo.
                                                    (Pensiero del piccolo Tommaso prima di conoscere il mondo)


                          





RINGRAZIAMENTI.


Con tutta probabilità non avrò modo di ringraziare queste persone in altre occasioni, forse più importanti, come la stesura di un libro vero e proprio.
Allora lo farò in privato, nel mio pc 4.8.6. potenziato.



Ringrazio il professor Pasquale Della Peruta per la sentita collaborazione, ma soprattutto per aver creduto in quest’utopia ed ad un mio futuro da scrittore, altrettanto fantasioso.


A Petrosino Luisa (mia sorella) per il lavoro di battitura, anche se riceve circa 25 euro a Capitolo.

A Giuseppe  Macchiaroli, che in gioventù mi voleva sparare ed ora è diventato uno dei miei migliori amici (tecnico aggiustatore del vecchio pc 4.8.6.)

Ringrazio l’ANGELO NERO, anche se riprende il doppio di quello che concede, difficilmente, però, si può pensare ad una vita senza

Al dottor La Monica, per l’ottima scelta degli antidepressivi

A Gennaro D’Antuono, eccellente fornitore

A mia madre e mio padre, per qualsiasi motivo vogliate associare


In ultimo, ma non meno importante, ringrazio il farmaco VASORETIC che tiene a bada la mia ipertensione, sperando, però, che non distrugga i reni.












CAPITOLO I


Roma, Italia. 3 settembre 2003




Il cane aveva pulito in modo accorto, rivolgendo attenzione ai pezzi di cibo che erano finiti sul pavimento, poi, come ultimo compito abituale, passava la lingua madida, lasciando un alone di lucentezza al metallo della scodella.
La porta d’ingresso si aprì e l’attenzione dell’animale fu sollecitata di colpo, tanto che diede uno strappo alla catena del suo guinzaglio, legata alle tubature del termosifone. Poi abbaiò, ma l’odore familiare lo tranquillizzò. Era il suo padrone.
Appena chiusa la porta, pose con accuratezza il lungo giaccone di pelle su una sedia, che sembrava fosse dietro l’uscio della porta proprio per quel compito. Sganciò il fermaglio dell’orologio da polso e con la stessa attenzione di pochi minuti prima lo lasciò sulla parte orizzontale della sedia; stessa operazione per il cappellino e gli occhiali.
<<Caligòla, hai mangiato?>>
Il cane pose la testa di lato e lo fissò attraversando la penombra.
<<Noto con piacere che sei mansueto stamattina, la catena ti fa bene. Devi sapere che ognuno di noi è prigioniero, anche io lo sono, credimi!>>
Schiacciò un piccolo pulsante elettrico, di quelli circolari antichi, e una luce dell’acquario, incastonato nella parete di lato alla porta, s’illuminò lievemente.
<<Sentiamo cosa sa dirci Masaniello!>>
Il pesce galleggiava sull’acqua verdastra di lato, immune da qualsiasi movimento che facesse pensare che era in vita.
<<La situazione è assolutamente normale. Amico mio, potevi risparmiarti questa fine, ma hai voluto farmi torto e io non perdono chi mi tradisce. Ti avevo ripetuto mille volte di non entrare nella conchiglia, ma tu niente, hai insistito caparbiamente. Sei stato assurdo e purtroppo non ho potuto tollerare tale situazione. A dire il vero ho provato a perdonare la tua disattenzione: c’è stata una volta che ero arrivato al punto di dimenticare il torto, ma il senso del principio, che dovrebbe essere d’ogni uomo, ha ottenuto il sopravvento. Probabilmente questo ha poco valore per te, ma per me è importante perché ho sentito dentro il perdono e quindi, né tu né altri, avete nessuna ragione di credere che sia stato un fatto personale. Perché ci sono anche gli altri che giudicano e biasimano il mio modo di trattare l’esistenza.
 E’ importante che tu comprenda, che tutti comprendano, che sono il vostro Dio e devo garantire la giustizia per tutti, senza far prevalere i sentimenti del rimpianto o del permissivismo. Io sono il sacerdote della regina Scolopendra.
Ora pulirò l’acquario per bene e poi lascerò che viva un altro al posto tuo. Un altro essere più meritevole e ragguardevole delle regole del mio impero. Sarà un lavoro duro, penso di aver ecceduto con le dosi di cicuta>>.
Massaggiò dolcemente la superficie dell’acqua. Dall’altra parte i vetri delle finestre raccolsero qualche lembo di luce serale, quella prodotta artificialmente con il caos della città in movimento. Erano passati pochi minuti da quando aveva deciso di ripulire la vasca di vetro, ma lo dimenticò velocemente come se fosse stato il proposito di un tempo ormai trascorso.
Andò in bagno, si riflesse nella specchiera che si reggeva proprio sopra il lavandino, appoggiò i palmi delle mani sulla ceramica fredda, poi cominciò ad ammirare i lineamenti ruvidi. Poneva prima con il lato sinistro della faccia, poi con quello destro: infine sollevò il mento e scoprì tutta la pelle del collo. La mano scivolava lungo la barba ruvida, in successione nel verso dei peli e poi contro la loro natura di forma.
Ci fu una lunga attesa: dieci secondi, forse venti. Davanti allo specchio apparvero come un’eternità. Guardava attentamente, poi blaterò con la saliva densa e chiara.
<<Ma certo che mi piaci, mi piaci, anche se tutto il mondo pensa il contrario. Sei d’aspetto originale, diverso da tutto il resto del creato. Direi che sei la perfezione e lo stesso autore comincia a covare sentimenti d’invidia. Qui, sulla tua faccia si nota la sicurezza, la potenza, il gusto per la ricercatezza. Ricordati che puoi disporre della vita e della morte: ne hai facoltà>>.
Lanciò uno sguardo all’ingresso, la casa era di modeste dimensioni e ogni ambiente rassomigliava a quello seguente, senza provocare disunione.
<<Ho fatto tutto, ora devo andare. Scendere per le strade e vivere tutto quello che c’è da vivere e, se sarà necessario, invocare la morte. Ma prima un saluto alla mia regina, la mia gran regina>>.
Andò nell’altra stanza. Indugiava su le cose da raccogliere e portare appresso, poi aprì un cassetto, raccolse una pistola e un coltello lungo sette dita. 
<<Devo prendere gli occhiali, non devo dimenticare gli occhiali. Mi aiuteranno a confondermi tra la gente>>.
Attraversò nuovamente tutta la casa e arrivò nella stanza da letto: ancora davanti ad uno specchio, quello che soprastava un piccolo armadio basso, alto non più di qualche metro che utilizzava discontinuamente o forse mai, ma era un oggetto d’arredamento a cui teneva molto.
<<Ma tu guarda che labbra secche, devo rinfrescarle>>.
Afferrò del lucido e lo passò con confidenza intorno alla bocca. Velocemente. Rinfrescato, si avvicinò ad un terrario che aveva posto proprio vicino all’acquario, grande quanto una scatola da scarpe, tutto in vetro. Aprì dalla parte superiore e lasciò cadere un pugno di zanzare che aveva comprato nel pomeriggio. Il piccolo insetto, padrone di casa, ebbe scosse elettriche, mentre le prede stordite annusavano il terriccio. Era la sua regina Scolopendra che si apprestava per la cena.
Dopo lo spettacolo, uscì, ancora, frettolosamente non ricordando il perché si fosse diretto nella stanza da letto, ma rimuginò poco, a capo basso si diresse in strada. Gli occhiali rimasero sul letto, con le barrette aperte.

Il primo taxi non si fermò, forse il richiamo non era stato convincente, probabilmente l’ora serale era segno di stanchezza per tutti.  Con le mani strinse alla testa i capelli, alzò lo sguardo e gridò:
<<Taxi, maledizione!>>
Una frenata a limite.
<<Signore, si accomodi! E’ libero>>.
Spinse la maniglia verso l’alto ed aprì la portiera. Questa volta tutto si svolse lentamente, come se una calma improvvisa fosse caduta sull’asfalto e poi di riflesso fosse arrivata all’altezza del suo naso.
<<Dove la porto, Signore?>>
Gli occhi dell’autista si deflessero nel vetro dello specchietto sopra la sua testa, tra il tetto e il cruscotto.
<<In un luogo calmo, di pace: il parcheggio della stazione regionale Roma-Viterbo>>.
<<Deve aspettare l’arrivo di qualcuno?>>
<<Perché?>>
<<Perché non ha una valigia con se, quindi, non è lei che parte, ma qualcuno che arriva, elementare!>>
Si distese lungo tutto il sedile posteriore.
<<Elementare?>>
Il tassista abbassò la leva delle luci di posizioni e s’iniettò nel flusso di veicoli, abbandonando il marciapiede alla sua destra.
<<Elementare! Ho detto proprio così.  Con il nostro lavoro si conoscono un sacco di persone e quindi s’impara a cogliere tutti i particolari. Allora chi è?>>
<<Chi è chi?>>
<<La persona che aspetta alla stazione!>>
<<Io non aspetto nessuno. Le ho chiesto di portarmi in posto tranquillo e il parcheggio della stazione fa al caso. Si sbrighi, questo caos mi snerva!>>
Il tassista cominciò a fissare lo specchietto con continuità, sincronizzando lo sguardo tra la strada e l’immagine riverberata del passeggero.
Non gli apparve preoccupato, ma preferì non continuare la conversazione, oramai mancava poco e tutto sommato era meglio finirla così: l’esperienza insegnava.
Chiunque fosse quell’uomo, sarebbe stato solo un numero infinito che si sarebbe perso nella memoria. Aveva riflettuto attentamente sulla questione in pochi secondi e così aveva deciso. Una volta lasciatolo, avrebbe fatto quello che più desiderava, tornare a casa a godersi televisione e vino bianco, non era più il caso di fare o chiedere altre confidenze: a pelle, il personaggio non lo permetteva.
 Pochi minuti poi apparve l’ingresso del parcheggio con la cabina del custode.
<<Vuole che entri fino nell’interno? Dovrò conteggiare anche le spese del pedaggio nella tariffa finale>>.
<<Attraversi! Non c’è nessun problema per le spese!>>
<<Le voglio dire se si vuole fare aspettare, dovrei rifiutare. Tra pochi minuti finisce il mio turno>>.
<<Arrivi in fondo al parcheggio, mi faccia scendere e poi sarà libero di andare>>.
<<Okay! Arriviamo in fondo al parcheggio>>.
La macchina si fermò, ma il motore era ancora in movimento.
<<Mi deve diciassette ero, più due euro per il pedaggio, arriviamo a diciannove. Grazie, signore>>.
Mentre lo pagava, aprì la portiera e pose il piede destro sull’asfalto; poi scese dall’auto e si affacciò dal finestrino anteriore.
<<Buonasera e grazie, lei ha una guida davvero rilassante>>.
Il tassista si mostrò sorpreso e spaesato, ma poi si ravvivò immediatamente, soprattutto dopo aver notato la buona mancia.
<<Grazie a lei e buona serata>>.
L’aria era leggera o forse appariva così per la calma che c’era in tutto il piazzale. Qua e là, macchine d’ogni tipo parcheggiate ordinatamente nelle apposite strisce blue dipinte a terra. Di là dalla rete, un uomo camminava su e giù con aria attenta: doveva appartenere alla squadra della sicurezza, di fatto la risposta, quando fu più visibile, fu positiva. Non si perse d’animo.
<<Salve!>> disse deciso <<Mi scusi se la disturbo, ma credo che abbiano cercato di rubare la mia auto>>.
La guardia lo fissò attentamente.
<<Mi dispiace signore, ma dovrebbe rivolgersi ai dipendenti del parcheggio. Io sono assegnato alla sicurezza delle merci e purtroppo mi trovo da solo in questo reparto. Non posso abbandonare la postazione e soprattutto non sono autorizzato per questi interventi>>.
<<Lo so, coglione, è per questo motivo che ti sto chiamando…E’ un mese che studio i tuoi orari>> bisbigliò con un filo di voce.
<<Cosa ha detto, signore?>>
<<Dicevo che sono disperato ed impaurito. Mi hanno lasciato uno strano biglietto sul parabrezza. Sono minacce, minacce di morte>>.            
La guardia non si perse di coraggio e si avvicinò alla rete di demarcazione.
<<Minacce?>>
<<Si, minacce di morte, come le dicevo>>.
<<Allora dovrebbe chiamare la polizia ed anche di fretta>> ancora la guardia.
<<La verità  è che sono inquieto e non riesco a prendere la decisione giusta. Nella fretta ho anche perso gli occhiali. La prego mi aiuti>>.
<<D’accordo, ma cosa vuole che faccia? Le ho detto che non posso lasciare la posizione, il mio collega è distante più di settecento metri. Abbandonerei un perimetro troppo vasto incustodito. E poi il mio intervento sarebbe completamente inutile, vista la limitata esperienza in questi casi……>>.
Con le dita tra la rete, non attese altre parole dell’uomo in uniforme.
<<Ma io le chiedo solo di farmi attraversare il cancello e restare con lei finché non sarà arrivata la polizia. La prego>>.
<<Ma signore, questa è zona rossa e i non addetti non possono entrare. E’ il regolamento. Perché non raggiunge la sala d’attesa alla sua sinistra?>>
<<Perché vengo da lì e non voglio rifare la strada, ho paura che posso trovare uno di quei criminali. La prego, apra il cancello, sono terrorizzato!>>
Le labbra della guardia s’incresparono, quando la mano di sua volontà accarezzò il mazzo di chiavi; la sensibilità non è un buon bagaglio da portarsi dietro, in questo mondo.
<<Va bene, ma si tranquillizzi ora! Che diamine, non sarà la fine del mondo se la lascio entrare. Al diavolo il regolamento, la vedo sul filo di una crisi di nervi>>.
Adesso sapeva cosa fare, cosa era giusto fare. Aprì il cancello e si mise di lato per permettere allo sconosciuto di entrare.
<<Grazie, non so come ringraziarla>>.
<<Mi basta che resta tranquillo, poi al resto ci penso io>> sbottò la guardia.
Ma l’ospite non era in vena di ricevere rimproveri e riguardo alla tranquillità aveva una resistenza connaturata, soprattutto in determinati momenti.
<<Tu pensi a me ed io penso a te>>.
Un attimo, forse anche meno di un attimo: la lama del coltello passò lungo la gola, giusto al centro tra il mento e l’inizio delle spalle, poi secco all’addome. Colpi rapidi, nessun grido, nessuna parola.  Con le labbra si accostò alla fontana rossa e bevve un poco di sangue. Poi prese a recitare dolcemente:




Non divorate le vostre brame
il rapace uccello vuole scendere                 
nella vostra gola,
giù verso gli organi nascosti.
Indiscreto,
cerca il cuore palpitante.
Protagonisti trovate il palcoscenico,
non resterò a lungo nell’ uggioso viottolo.
Seguite il viaggiatore della notte.
Ingenui.
Il mondo ha ucciso le metafore,
tempo di capire non è più,
il rapace uccello
è già alla vostre spalle.


Un piglio al cielo e poi al cadavere tra le sue braccia, ancora caldo.
<<Ti ho dovuto sacrificare per il compimento del mio disegno: fra pochi minuti arriverà lei e tu eri sempre qui a guardare, a vigilare. Ho dovuto farlo, mi hai costretto. Ora basta devo nasconderti>>.
Passò in rassegna tutta la zona con un’occhiata veloce e mirata. Aveva studiato attentamente il luogo per un lungo periodo in passato e a pochi metri doveva esserci un fosso. Si allontanò di corsa per circa trenta metri nel senso inverso della sala d’attesa. Finalmente lo scovò, era profondo qualche metro, in tutti i suoi appostamenti non capì perché servisse ai dipendenti, ma c‘era e faceva al caso suo.
Tornò nuovamente di corsa verso il cadavere e sul posto lo afferrò per le caviglie. Aveva pochi minuti per tirarlo fino alla fossa, alle nove e mezzo lei sarebbe uscita dall’ufficio.
Tra un affanno e l’altro diede uno sguardo all’orologio: nove e un quarto. Si volse di spalle alla buca e continuò a tirare il corpo. Tirava e guardava se qualcuno arrivasse dal lato della sala d’attesa. Nove e ventidue: il cadavere giaceva, avviluppato su se stesso, nella fossa.
Gli ci volle qualche secondo per riprendere fiato e riordinare le idee. Fatto. Nuovamente di corsa verso il cancello; lo chiuse per non destare sospetti, si orientò per scovare la sua macchina.
<<Audi grigia, dove sei? Cazzo, avrei dovuto trovarla prima, ma non pensavo che il cazzone mi avrebbe fatto perdere tutto questo tempo. Dove sei?>>
Come avrebbe potuto compiere il disegno se non si fosse calmato?
<<Calma, devo ritrovare la calma!>>
Si coprì gli occhi con entrambe le mani…. poi liberi all’improvviso, di guizzo.
<<Eccola ! Sei perfetto, quando vuoi>>.   
La catena del cancello oscillava lentamente e lui si preoccupò di tenerla ferma qualche secondo con la mano per evitare che continuasse a provocare rumore.
Ad una certa distanza si udì il suono della chiusura di una portiera, allora si abbassò fino all’altezza dei tetti delle macchine. Fece trascorrere qualche secondo, poi quando si accorse che lo sconosciuto si avviava in tutt’altra direzione, fu nuovamente retto e corse verso il suo obiettivo.
Raggiunse la macchina in pochi attimi, si voltò su se stesso notando con soddisfazione che non c’era alcun segno d’essere vivente. Allora fissò la portiera in modo mirato: la fotografò.
Da li sarebbe entrata! Avrebbe dato le spalle al tutto il perimetro del parcheggio. Lui doveva beccare solo un attimo di fortuna, perché non arrivasse anima viva. Ebbe fiducia nella sua buona sorte.
Si accovacciò dietro un’altra macchina, quella che parallelamente era posizionata all’audi, poi tirò fuori il suo panno di lino dalla tasca. Trenta centimetri per trenta. Il giusto che bastava per passarlo sulla bocca e naso imbevuto di narcotizzante. Amava, quando, prive di senso, si abbandonavano di peso al suo torace; sentiva forza di dominio in quel momento. Indescrivibile forza di dominio.
Proprio come la sua regina Scolopendra: le immobilizzava e restava a guardare prima di infliggere il colpo finale, la punizione.
Era la penetrazione di lama che avrebbe purificato, pulito il mondo da un’altra donna, da un’altra peccatrice. Allora tenne per il manico il pugnale, con forza, fiera presa di un guerriero che avrebbe concesso la vita per portare a compimento quel messaggio di morte.

Ore nove e ventinove minuti: tutto perfetto.  
Lei aveva appena lasciato l’ingresso della sala d’attesa, precisa. Lui dopo averla scorta, si abbassò nuovamente al riparo, dietro la macchina.
Un lungo marciapiede incorniciava tutto l’immobile della stazione e lo attraversò velocemente; il rumore della suola suonava sull’asfalto, il vento fresco di marzo raccoglieva quel suono per portarlo fino alle orecchie dell’uomo, e poi su fino al cervello.  
Tac, toc, una sinfonia e più si avvicinava all’audi e più quella sinfonia aumentava.
Tac, toc, era vicinissima.
Uno scatto, qualche goccia di saliva venne giù dalle labbra arricciate per la tensione.
Fu un rumore sordo, quando il liquido toccò il suolo, diverso da quello della suola di lei. Le pose il lino tra bocca e naso, accuratamente.
La vittima si agitò, il braccio sinistro in alto, poi di getto all’indietro per cercare di colpire qualcosa, qualcuno. Il bianco delle pupille prese il sopravvento a quel castano acceso che sempre l’aveva contraddistinta. Era bella con il corpo, ma quella luce negli occhi le donava qualcosa in più.
Ora era sparito, e il braccio s’era abbandonato alla forza di gravità.
Lui la tenne di forza con un solo arto all’altezza dei seni, era sempre di spalle, le passò il coltello sulla pelle liscia della gola e poi terminato il percorso, trafisse il basso ventre.
Quando la lama fu dentro la carne ancora ardente, la tirò da sinistra verso destra, con forza, con rabbia; allentò la presa del braccio e il corpo si abbandonò all’asfalto.
Un altro rumore sordo.
Che libidine che sentiva dal collo fino a tutti i muscoli della faccia, che poi si trasformava in lacrime d’eccitazione, che calde, gli solcarono il viso. Il vento di marzo fresco accarezza tutto e tutti. La fissava.
Trasse dalla tasca la foto del suo insetto regina per pulire la lama e la lasciò, poi, affianco al corpo ormai inerme.








CAPITOLO II


Spigno Vecchio, Latina, Italia.
15 novembre 2003.




<<Bambini, la colazione è pronta!>>
Dal piano superiore una voce composta e assonnata risuonò debolmente e con stentatezza arrivò alla cucina, confinante con il giardino di scuola inglese, ma sedotto da incantate fontane giapponesi che riversavano le loro acque in piccole tinozze naturali limpide, sempre di stile orientale.
<<Arriviamo, giusto un attimo!>>.
Stefania Giacobini, in Borchia, era una professionista di rilevante capacità, si occupava di mercati finanziari e tutto quello che concerneva gli investimenti del denaro. Per il suo lavoro, era ben voluta dalla piccola comunità di Spigno Vecchio, in provincia di Latina, poiché aveva trasformato la  realtà contadina con successo e senza traumi, riuscendo nell’arduo compito di scoperchiare i risparmi dalle mattonelle e riversarli in banca.
Un poco alla volta, convinti anche dai risultati evidenti della Giacobini, tutti gli abitanti del posto si accodarono alla processione, con la consapevolezza che il mondo cambiava repentinamente e restare indietro poteva rivelarsi catastrofico.
Lei li aveva a cuore, i paesani, e non sfoggiava mai i risultati della sua affermazione professionale, quando si trovava in loro compagnia. Amava ritornare sempre alle origini: l’odore delle mucche, delle pecore e delle caciotte fatte in casa. Desiderava ascoltare il vento che fischiava tra le spighe di grano giallo, tra il parlare delle api, tra il polline e l’abbaiare del suo cane. Tutto il successo del mondo, i riconoscimenti, le gratificazioni economiche non le avrebbero mai occultato la realtà della sua famiglia: i suoi due figli Giacomo e Daniele e il marito Giovanni, l’unico uomo che aveva amato in tutta la sua vita.
In quell’angolo di mondo, in un’Italia sconosciuta, in contrasto con la Roma del successo e del quotidiano lavorativo, ricaricava le sue energie nel fine settimana, tra i suoi cari e i ricordi di bambina.
Giovanni, invece, agevolato dal suo lavoro d’architetto, riusciva a seguire la casa e la crescita dei due figli, senza patire l’assenza della moglie, consapevole che tutti i sacrifici si dovevano per il futuro dei piccoli.
Poi, tutte le sere Stefania tornava a casa, salvo quando doveva partecipare a qualche meeting, ma questo non accadeva che per qualche giorno al mese. I due si amavano tantissimo, si vedeva dalla luce delle loro azioni, da come la sera lei abbandonava la macchina ancora in moto per abbracciare i piccoli e regalarsi alle braccia del suo uomo.
La cena! Nessun’altra famiglia donava importanza alla cena come in casa Borchia.
Tutto era rito ed ognuno smaniava per quel momento delicato. Piccoli movimenti carichi di calore e di storia; intensi, dal sapore acro del mondo contadino, sempre sincero e genuino.
Giacomo preparava il pane, Daniele riempiva le ciotole d’olive, le nere, il capo della famiglia si occupava della brace nel camino per arrostire il vitello e Stefania si liberava dal caos cittadino abbandonando vestiti firmati e trucco.
Era una bella donna, e quando partiva la sua bellezza si trasformava anche in seduzione, visto il gusto acceso nel vestire e nel prepararsi. Nonostante le due gravidanze, il fisico contornava egregiamente i lineamenti piacenti e gradevoli.
Giovanni n’era cosciente e il suo amore riaffiorava di continuo insieme al desiderio di avere la moglie ogni notte, come se fosse sempre la prima volta. In ogni momento della giornata immaginava la pelle liscia di quelle gambe sode e scure, ma immaginava anche che in quel preciso istante occhi d’altri uomini scrutassero la sua carne. E quegli sguardi predoni e selvaggi lo irritavano, fino a far esplodere in lui sentimenti di gelosia e di desiderio. Ma nonostante tutto questo, quando si univano nella loro stanza da letto, nella loro casa, entrambi avevano la sicurezza che l’uno sarebbe stato fedele all’altra per tutta la vita. Perché non si può fingere con il calore, con il battito del cuore accelerato e con il sapore fresco delle labbra amanti.
Anche lui, prestante e virile, aveva promesso, come giuramento solenne, che non avrebbe mai ferito la moglie e in nessun modo scalfito la serenità dei suoi piccoli, nonostante la corte serrata d’altre donne. Questo però apparteneva al passato, ad un periodo bucolico, ma da tempo i sentimenti erano cambiati e un’aria di sfiducia aveva avvolto casa Borchia.
Lei aveva qualche sospetto sulla condotta morale del marito, un dubbio atroce che le torceva l’anima come una mola da mulino, ma nessuna prova, unicamente una pressante e strana sensazione. Ciò nonostante però aveva anche un gran desiderio che tutto tornasse normale, e la casa fosse nuovamente colma di gioia e di passione, quindi non pensava ad altro che dimenticare e cancellare quella sensazione malefica, insopportabile. Negli ultimi giorni qualcosa di buono era accaduto, ma non era un segnale fortemente rassicurante.     
Intanto, quella mattina, decisa a ritrovare la serenità di una volta, era pronta per una nuova e faticosa settimana lavorativa: aveva radunato la famiglia, ma ancora nessuno si era affacciato dal piano superiore.
Allora riprese a gran voce:
<<Ragazzi, venite giù!>>
Seguì ancora silenzio, un silenzio che cominciò a pizzicarle la tensione.
<<Giovanni, perché non mi risponde nessuno?>>
Ancora niente, nemmeno un rumore, uno spiffero.
<<Ma cosa sta succedendo, Dio Santo? Mi state facendo venire i patemi d’animo!>>
Si riversò con un filo di fiato su per gli scalini di legno, ansiosa di trovarsi quanto prima al piano superiore. Arrivata al solaio, ghermì la maniglia in metallo che delimitava l’area della stanza da letto.
Era chiusa, la porta era chiusa.
Con il palmo sudato cominciò a tamburare il legno. Lo avvertiva freddo ed insormontabile. Allora nuovamente si aiutò con la voce.
<<Ragazzi, aprite. Ma cosa succede?>>
Un pianto frenetico e improvviso apparve sul suo viso. Di continuo, proprio alla stessa maniera del dolore improvviso, che giù dallo stomaco scalava il suo corpo fino ad arrivare alla gola. Secca e arida. L’avvertiva secca e arida, la gola, e il respiro, tirato con forza, le raschiava le pareti, oramai brulle, di tutto il collo.
Niente era più comprensibile, ogni parte del corpo, ogni movimento seguiva il magnetismo di una forza estranea: il terrore. L’odore di una tragedia traspirava attraverso quella porta, che continuava a rimanere serrata nonostante i forti spintoni di lei.
L’ansia ed i singhiozzi seppellivano le parole.
<<A..pri..te , per  fav..ore.Vi prego!>>
Improvvisamente la porta si spalancò come se avesse ascoltato la lagnosa preghiera!
<<Tanti auguri a te, tanti auguri a te. Tanti auguri a te>>.
I due bambini le presero con forza il bacino, accostando il capo caldo allo stomaco ancora in tumulto.
<<Buon compleanno, mamma. Visto che bella sorpresa?>>
Lei ebbe un lieve movimento con la testa, un tremolio d’assestamento dei nervi. Poi le labbra recitarono un sorriso. Seguì un istante, il marito l’arpionò con le braccia e la tirò al suo respiro, tenendola stretta e prigioniera.
<<Buon compleanno, tesoro. Ti amo!>>
Era il suo turno: provò a dire qualche frase.
<<Grazie! Siamo una famiglia davvero speciale, non amiamo le cose normali! La prossima volta una torta a cena sarà più che soddisfacente>>.
<<Oh Santo Dio, ti sei spaventata? Ragazzi, la mamma è spaventata, abbracciatela forte e fatele sentire tutto il vostro amore!>>
I due bambini volsero il capo verso l’alto.
<<Mamma, ti sei spaventata? Allora lo scherzo è riuscito?>>
Ancora non intendeva abbandonare completamente la tensione; avrebbe voluto sfogarsi, sfociare in un fiume di rabbia distensivo, ma il viso fresco di mattina poggiato sul capo dei figli la distolse.
<<Va bene, lo scherzo è riuscito, ma ora tutti giù per la colazione. Sapete che la mamma deve partire per Roma e trovarsi in banca presto>>.
Lanciò un’occhiata al marito.
<<Non guardarmi così, è stata una loro idea, Dio, continui a tremare come una foglia! Vieni da me che ti stringo forte>>.
La prese nuovamente tra le braccia possenti; lui oltre ad essere un professionista amava curarsi della loro terra e il lavoro si sentiva attraverso la sua muscolatura.
<<Che ne dici se facciamo aspettare qualche minuto i ragazzi, mentre fanno colazione? Potremmo disfare nuovamente il letto!>>
Loro, di corsa, si trovavano già al piano inferiore, al tavolo della colazione.
<<Sei pazzo, ho appena finito di prepararmi: c’e voluto oltre un’ora!>>
Lui non intese, aveva già la camicia sbottonata, mentre si arroventò al collo della moglie rigido ma caldo, che scagliava sulle sue labbra un odore voluttuoso, penetrante.
Non vi fu freno! Il loro amore, l’intesa e il nido coniugale si svelavano come un disegno di pace e sobrietà, lasciando di là dai confini il mondo funesto e petulante.
Era l’uomo della sua vita, il grande amore e fatto finente, ma certamente non secondario, anche il padre dei suoi figli. Quel pensiero cattivo era passato del tutto? I sospetti erano svaniti? Forse!
Intanto si amarono, nuovamente.

I ragazzi avevano preparato le loro cose per la scuola, libri, zaini, merende, mentre la sveglia marcava le sette e quaranta. Un leggero ritardo: lo scherzo aveva rubato qualche minuto.
<<Mamma è ora!>>
Stefania guardò l’orologio da polso, si tirò in tensione, un bacio al marito disteso sul letto e poi riaprì per la seconda volta l’armadio del vestiario.
<<Dio, mi hai rivoltata tutta. Devo darmi una sistemata, anzi rivestirmi e truccarmi daccapo. Sei un mascalzone!>>
L’armadio era attaccato al muro come se ne fosse parte integrante, tra esso e il letto un piccolo corridoio che dava agio alle ante di aprirsi senza toccare il bordo del letto confinante. Un letto ampio adornato in ferro battuto, di manifattura artigianale. Lei regnava in quel lembo di stanza, di spalle al marito che, con il capo su due cuscini, si era posizionato per ammirarla. Era già svestita. La biancheria rossa si distendeva sulla pelle garbatamente, lasciando un senso di comunione a lui spettatore ancora insoddisfatto.
Il laccio del reggiseno affondava tra la carne della schiena, nella parte centrale, per perdersi quasi completamente in  quella  che si trovava tra  le ascelle e  la prima parte del seno. In tutte e due i lati, in eguale modo. Da quel punto visivo, quando, veloce per la fretta, si girava leggermente di lato, si scorgevano le rotondità del petto e con attenzione anche strascichi di pelle che trasparivano attraverso i disegni merlettati delle coppe. Lui restava immobile, mentre un leggero ghigno gli pervase la parte inferiore del viso: gli occhi si posarono sulle natiche bianche, ma chiazzate da lievi rossori, evidentemente, causati dal suo peso che l’aveva  schiacciata sulla superficie del letto. Era stata sua pochi attimi prima, ma ammirarla completa e impacciata, gli colpiva nuovamente il desiderio.
Fece uno scatto, da supino, seduto e poi in piedi, di lato al letto.
Lei se n’accorse, lo conosceva e gli impose di fermarsi.
<<Basta! Non ti permettere, è tardi. Anzi è tardissimo!>>
Raggiunse anche lei il lato del letto, ma quello opposto al marito, dove si trovava il mobile che reggeva lo specchio e gli arnesi per il trucco.
Lavorò velocemente, ma certo non in modo superficiale: passò il rossetto sulle labbra ancora arroventate, la matita a circolo attraverso le palpebre, poi le ciglia con un forte colore nero.
Scelse una gonna grigia al disopra delle ginocchia, non troppo, giusto il dovuto per rimanere nei confini della sensualità senza scadere invece nella trivialità.
Camicia dai folti colletti, vaporosi e avvolgenti, in avorio e infine una giacca in misto lana grigia, gessata. In autunno il soprabito non era necessario.
<<E’ ora, devo scappare! Mi aspetta una giornata dura e faticosa, ho un appuntamento con un facoltoso cliente del sud; ha desiderio d’investire grandi somme di denaro. Sarà il mio affare del mese>>.    
<<Devo essere geloso?>>
Lei lo guardò servendosi dello specchio del comò.
<<Di che cosa? Scusa, non capisco!>>
<<Come di che cosa! Della mia splendida moglie e di quest’affascinante investitore del sud.>> riprese lui, mentre s’infilava i pantaloni, raccolti dal pavimento con sospiro di fastidio.
<<E dimmi, come fai a dire che è affascinante? L’hai visto in una palla di qualche cartomante?>>
Si volse verso il letto in cerca dello sguardo del marito, ma lo trovò di spalle, mentre brigava con la cintura di pelle nera.
Sentì gli occhi di lei che lo scrutavano, mentre studiava il modo migliore per infilare gli indumenti della parte superiore del corpo. Poi si volse, ben attento che il suo atteggiamento non fosse stato troppo duro ed inquietante.
<<Per quanto mi riguarda, metti troppa attenzione nella cura del tuo aspetto. E questo ti garantisco vale più di una risposta di qualche palla magica>>.
Non era riuscito nel suo intento: fu spregevole!
<<E dire che abbiamo appena fatto l’amore>>si ridisegnò le labbra con il rossetto, mentre gli occhi spruzzavano rabbia e chiarori luccicanti, rinchiusi da lacrime nasciture.
Raccolse tutti gli oggetti della sua borsa, e in quello stesso momento, risuonò nuovamente la voce dei bambini che premevano dal piano inferiore, quindi si avviò lentamente per la direzione del corridoio.
<<E’ ora, oggi tocca a te accompagnarli>> arrivata alla porta della camera cercò di riprendere fiato e di calmarsi, dopotutto era suo marito e voleva iniziare la giornata con un sorriso.  
<<Fingiamo che questi ultimi dieci minuti non ci siano mai stati?>>
Lui abbassò lo sguardo come se si volesse discolpare e poi la fissò ancora amorevolmente.
<<Okay, tesoro! Scusami e che.….>>
Lo interruppe all'istante.
<<Scusarti e di che cosa? Non ti capisco, ricordo solo che è stato bellissimo come il solito. Ora è il momento che vada, c’è un tempaccio e devo procurarmi qualcosa per coprirmi. E’ un autunno mite, ma la pioggia ha cominciato a cadere presto quest’anno, che scocciatura>>.
Salutò i suoi piccoli, si raccomandò che si comportassero egregiamente, promettendo che sarebbe rientrata prima dell’ora di cena, e loro due credevano alle parole della mamma perché aveva sempre mantenuto ogni sua promessa.
Lui, dalla stanza da letto, la vide che di corsa si spicciava ad aprire la portiera della macchina tra le gocce d’acqua combattive.  Stefania si accorse della presenza, allora alzò lo sguardo verso la finestra della camera, con la mano sfiorò le labbra e lanciò un bacio all’ombra che si scorgeva attraverso la tenda. 







CAPITOLO III


Stazione Ferroviaria di Salerno, Italia
26 novembre 2003
  



La marea raggiunse la parte più alta della spiaggia, quella più vicina alla città, al suo cuore pulsante e frenetico, che continuava a battere, non curante delle tragedie che inevitabilmente avrebbero svigorito le anime degli uomini. E proprio in quella terra di confine, tra la spiaggia e il lungomare in cemento che uno spirito in carne, fisso con lo sguardo, annusava le onde schiumose di quell’immensa pozzanghera d’acqua.
Da lontano si poteva cogliere quella presenza, ma la si lasciava lì, incompiuta, come la figura di un paesaggio che vive non per forza di cose, ma in modo naturale ed inconsapevole.
Aspirava una sigaretta. L’alito e il fumo scacciati su dai polmoni s’inoltravano nell’aria in orizzontale per poi abbandonarsi alla loro leggerezza e alzarsi fino al suo capo, attraversando gli occhi, i capelli e poi diventare invisibili nel fosco della notte.
La pena del suo malumore si confondeva con l’odore della salsedine, o forse si scontrava con il senso di quiete che essa tramandava ad ogni visitatore del mare. Di fronte a lui, lontano sull’immensità dell’acqua, barche o forse navi, cariche di luce che aprivano l’oscurità e sembrava che volessero dominare il quadro naturale che si stendeva per tutto l’orizzonte visivo.
Nessuno poteva essere di compagnia, né in quel momento, né in qualsiasi altro del futuro, perché era il suo volere, una scelta di vita.  Il triste destino di un uomo, che condivideva con la propria mente ogni aspetto nuovo ed insolito della vita, evitando d’istinto di biasimare tutto quello che lo circondava.

Le barchette da noleggio, ancorate a pali di legno, insabbiati nell’acqua bassa, suonavano le vecchie corde in trazione e quel cigolio batteva a tempo con le onde di ritorno dall’impatto con la sabbia, prima baciata, poi subito abbandonata dall’acqua.
Luigi lanciò un’occhiata all’orologio da polso: il treno sarebbe arrivato alla stazione di Salerno alle 23.40, proveniente da Reggio Calabria. Forse zeppo di passeggeri, ma non gli pesava, poiché lo preferiva all’aereo in ogni caso.
Era fermo, a fissare il mare, da oltre un’ora; noia e compiacimento gli avevano attraversato il corpo in modo ripetitivo e snervante, fino alla soddisfazione che l’ora della partenza sarebbe giunta.
Proveniva dal suo paese natale, Montesano sulla Marcellana; aveva viaggiato in corriera istituita dalle Ferrovie dello Stato per raggiungere i posti angusti e non segnati dalla strada ferrata. Aveva lasciato la madre improvvisamente, ma lei non ci faceva caso, perché era abituata alle partenze e agli arrivi improvvisi del figlio; bastava una telefonata e lo vedeva di spalle allontanarsi lungo il giardino,  per poi dileguarsi definitivamente dietro il cancello di ferro che proteggeva la loro casa. Restava sola, in solitudine pregava il Signore perché proteggesse il figliolo, soprattutto ora che lavorava da solo senza più un collega. Ma lei lo aveva detto, approfittando di quell’ultima visita del figlio, lo aveva detto con forza e convinzione, perché le sue preoccupazioni non le lasciavano tranquillità da molte notti, oramai.
<<Ma come, da quando Marco si è ritirato non hai più trovato un collega con cui dividere il lavoro: figliolo, io ti vedo stanco, provato. Possibile che questo caratteraccio che ti ritrovi ti porta sempre ad allontanarti dalle persone?>>
<<Mamma, qui non giochiamo mica a fare le multe! Ho bisogno di un collega di cui fidarmi, capace, istintivo. Purtroppo oggi giorno scarseggiano personaggi di questo stampo. Sono tutti “figli di papà“ che escono dall’accademia per poi venire a rompere le palle con la loro incapacità…..>>
Lei lo scrutò, e poi scavò con l’autorità e la sicurezza che solo il cuore di una madre può ostentare.    
<<Praticamente ti manca Marco!>>
<<Certo che mi manca, siamo cresciuti insieme e come coppia le abbiamo davvero passate tutte. Dalla mattina fino alla sera, lottavamo contro tutto e tutti: contro criminali, terroristi, maniaci ed infine, non perché era un avversario meno ostico degli altri, contro lo stesso sistema che impartisce gli ordini. Ora dovrei affiancarmi ad un pivello che mi costringerebbe a sprecare la metà del tempo solo per tiralo via dai guai. No, preferisco mangiare panini e bere caffé da solo>>.
Mimma si avvicinò alla finestra. Nell’angolo c’erano le rose raccolte il giorno prima dal suo giardino e mentre il figlio chiacchierava, non era sfuggito alla sua attenzione il colore giallastro che aveva invaso l’acqua in cui erano sommersi i gambi.
Per non dare a credere che fosse interessata, riprese ad interrogare il figlio con cautela, anche se la noia sul suo volto preannunciava risposte reticenti.      
<<E dimmi un po’, non vi sentite nemmeno, da qualche tempo?>>
Luigi trasudava imbarazzo come se fosse il sudore di una corsa campestre.
<<E’ buffo, anzi direi miracoloso: sei qui in un angolo sperduto dell’universo tra montagne, pecore, trattori eppure riesci a reperire notizie dal mondo esterno, come se avessi a disposizione un “corpo dei servizi segreti“  che ti tiene sempre aggiornata>>.
Lui fece una pausa, si alzò schiacciò il tavolo con i grossi pugni chiusi, poi prese una sigaretta sollevando la mano destra dal legno. L’accese, con un dito chiese alla madre che gli avvicinasse un posacenere pulito visto che quello che aveva davanti era traboccante.
Il primo tiro fu profondo, un espediente per ritrovare la calma.
<<Il signorino ha deciso di scrivere libri>>.
Schiacciò le spalle allo schienale della sedia e dipinse la faccia con irritazione, poi aspettò che sul volto della madre nascesse invece sorpresa o addirittura sgomento.
Lei raccolse uno strofinaccio che era caduto a terra, si pose dritta con la schiena e con attenzione rispose.
<<E allora? Da come lo dici sembra che stia commettendo il più grande crimine del mondo. E’ un modo come un altro per uscire da questa vita da cani, e poi un poco di talento lo ha sempre avuto, perché non provare. Non capisco perché fai tanto il difficile ed il catastrofico>>.
<<Difficile e catastrofico?>>
<<Certo, ho detto proprio così, fai il difficile e il catastrofico, anzi ti dirò di più sembri un bambino capriccioso cui hanno rubato un vagone del trenino elettrico>> di rimando riprese Mimma senza dargli tregua.
<<A parte il fatto che non ho mai posseduto un trenino elettrico, e quindi non ho mai provato la sensazione di esserne privato……>>
<<Visto come sei catastrofico? Era solo un modo di dire, un banale modo di dire! E poi non accusarmi di una cosa così terribile, avrei voluto regalarti tutti i giochi di questo mondo, purtroppo la Signora Povertà non me l’ha concesso>>.
Si girò di spalle come se fosse in cerca di una tana dove rifugiarsi. Luigi era scosso, senza volerlo aveva ferito la madre ed ora in pochi secondi cercava di scovare dentro di sé parole concrete per restituirle serenità.
<<Mamma, ti prego! Anche il mio era solo un modo di dire, come posso lamentarmi di voi e del mio destino, ricordati che il mio migliore amico è orfano, quindi ho sempre ringraziato il Cielo per la felicità e la serenità che mi hai concesso>>.
<<Però quando volevo separarmi da tuo padre non la pensavi così, oppure quando eri piccolo non facevi che dire che tutti mangiavano pane e cioccolata mentre a te toccavano le conserve all’olio. Ancora mi ricordo dello zainetto degli altri, mentre il tuo fu ricavato da un vecchio paio di jeans. Ancora…….>>
<<E basta mamma, ora sei tu catastrofica: sono cose che si dicono, parole che appartengono all’ira del momento, poi saranno spazzate dal vento. Riguardo alla vostra separazione, per me è stato un momento duro, soprattutto accettare che tu avessi un altro compagno, ma ora ne parlo tranquillamente; ritorno ogni volta al mio paese con la testa alta, senza dovermi preoccupare delle dicerie di questi vecchi dinosauri che, ti garantisco, mi hanno perseguitato fin da bambino. Ma ora cambiamo argomento, non voglio che la mia presenza qui sia un motivo di turbamento per te. Di cosa stavamo parlando al principio dei tempi?>>
Sorrise alla madre, mentre cercava di rapirle gli occhi bassi che fissavano il pavimento per nascondere le lacrime calde. Poi, lei repentinamente si sfiorò il viso con una delle mani, nel vano tentativo di cancellare quel velo di tristezza che improvvisamente s’era abbassato sul suo volto.
<<Mi stavi parlando di Marco e della sua nuova professione, soprattutto di quello che ti recava fastidio da questa nuova situazione>>.
<<Già, è così, avevo perso il segno. Bene, continuo: per quanto mi riguarda è libero di fare tutto quello che gli piace, quello che lo distrae, però non deve tirarmi in ballo nelle sue storie….>>
<<Aspetta un attimo, vuoi dirmi che racconterà della vostra vita?>>
Luigi la fissò con sgomento.
<<Cosa credevi, che avesse scritto della pecora Susanna, del fantasma Formaggino, e del Topolino Bibliotecario?>>
Allora lei prese a ridere di gusto, nascondendo l’ilarità con il palmo di una mano, nel vano tentativo di non turbare la suscettibilità del figlio.
<<Cosa c’è da ridere?>> chiese Luigi.
<<No, niente. Pensavo a come ti descriverà quando sistematicamente ti sollevi le braghe ogni volta che ti alzi da una sedia>>.
Continuò a sorridere e anche Luigi accennò una lieve distrazione nell’angolo delle labbra, ma non più di questo. Poi lo squillo del telefonino riportò tutto alla regolarità.
<<Pronto, sono Luigi Febbraio>>.
Ci fu silenzio. Il solito silenzio.
Quello che Mimma conosceva bene, quello che avrebbe portato via nuovamente il figlio, lontano, verso il proprio destino.
Luigi ripose l’oggetto in tasca, in quei momenti evitava d’incontrare lo sguardo della madre e col capo chino cominciò a raccogliere accendino e sigarette.
<<Devo partire immediatamente per Roma, sono stato convocato d’urgenza dal Racis. Mi dispiace ma è urgente. Scusami>>.
Mimma soffocò con forza i sentimenti d’angoscia che la pervasero.
<<La corriera per Salerno parte alle 18.00, è l’ultima della giornata. Sarai in città per le dieci poi i treni per Roma non mancheranno>>.
<< Mi dispiace Mamma, ma è una cosa di grave…>>
Lei lo riprese.
<<Ti prego non darmi spiegazioni, è peggio. Devi compiere il tuo dovere verso lo stato, ma ricorda che hai anche il dovere di tornare da me, quindi resta sereno e fai molta attenzione>>.
Adesso lo guardava negli occhi profondamente e lui provato, si rivolse dolcemente per rassicurarla, quantomeno azzardò un tentativo.
<<Non ti preoccupare, te lo prometto>>.
Furono le ultime parole che si scambiarono.

Era tardi, doveva lasciare la calma del mare per recarsi di buona andatura alla stazione, al binario numero tre: s’era documentato prima di scendere al lungomare.
Sul ciglio della strada chiamò un taxi, pose la valigia accanto a sé e chiese all’uomo di portarlo a destinazione.
<<Turista, signore?>>
Luigi guardò accigliato lo specchietto retrovisore dell’abitacolo.
<<No. Sono nativo del posto>>.
<<Davvero? E di dove, precisamente?>>riprese insistente l’uomo.
Ma lui fu diretto, questa volta.
<<Mi scusi, ma ho molta fretta ed ho poca voglia di fare conversazione>>.
Il tassista accusò male il colpo, come se avessero ferito la sua professionalità, il suo senso d’ospitalità.
<<Mi scusi non volevo essere invadente, cercavo solo di essere gentile… Bah....>>
Fino alla porta della stazione non ci fu dialogo e l’uomo si limitò a riferire il costo della corsa, quando furono arrivati a destinazione; seguì un debole filo di voce per il saluto. Poi si allontanò lasciando il passeggero alla vista della gran porta della stazione, immerso tra le luci della strada e quelle del grande edificio proprio di fronte al suo naso. 
All’ interno, tra le altissime cupole di gesso bianco, risuonò una voce dagli altoparlanti.
<<Binario tre, treno Reggio Calabria- Milano viaggia con venti minuti di ritardo …>>
Poi seguì l’elenco delle fermate.







CAPITOLO IV


Roma, Italia
27 novembre 2003. Ore 4.20




Aveva fumato una sigaretta dopo l’altra, continuamente nascosto nel bagno del treno e poi nella stazione Termini fino a quando una macchina di servizio non era arrivata per portarlo al comando.
Fu un percorso sordo tra le strade della Capitale che alle prime luci dell’alba appariva ancora più bella del solito.  Aveva ricevuto una telefonata e una macchina d’ordinanza lo conduceva nel posto da cui erano partiti gli ordini: quasi certamente si trattava di un incarico ufficiale e quindi non apparteneva al ramo dei servizi segreti.
<<Dove stiamo andando?>>
L’autista non perse tempo con la risposta.
<<Ho solo ricevuto incarico di condurla in un determinato posto, signore>>.
<<Cazzo, quando fate così mi fate venire la pelle d’oca. Posso almeno fumare nella macchina di proprietà del papà Stato?>>
<<Come desidera, signore!>>
Si stavano avvicinando ad un semaforo, quando si accorse che qualcuno li stava seguendo. Si girò con la testa per averne la sicurezza.
<<A quanto pare è una notte molto trafficata>> esclamò succhiando la sua sigaretta.
Parve che le lancette dell’orologio si fossero fermate ed ebbe il dubbio che l’autista girasse intorno, non considerando una traiettoria precisa e ben definita.
Arrivarono nei pressi di un viale alberato e poi s’inoltrarono nei confini di un gran recinto con numerosi camion che evidentemente aspettavano il sole per ripartire.
Luigi non terminava di aguzzare lo sguardo ora sull’autista ora sulla macchina che s’era fermata accanto alla loro. Poi prese la cenere della sigaretta con l’altra mano per evitare che cadesse nell’abitacolo, ma il contatto del fuoco con la pelle dovette dargli qualche fastidio visto che grugnì con volume considerevole.
<<Signore, ha detto qualcosa?>> immediatamente l’autista.
<<Pure se fosse a cosa servirebbe? Lei sicuramente non mi darebbe una risposta! Ah, ho dimenticato di chiedere: mi aspetta un lussuoso albergo?>>
<<Signore, ho ricevuto degli ordini precisi e li eseguo alla lettera>>.
<<Diavolo, che correttezza!>>

La macchina viaggiava spedita lungo le strade della città, a quell’ora non c’era traffico. Gli antichi monumenti si susseguivano come un flashback attraverso gli occhi di Luigi. Case dell’ottocento, tra monumenti dell’antica Roma, e ancora tutto insieme: grattacieli, chiese del medioevo. E’ l’unica città al mondo che può conservare l’eredità delle epoche e allo stesso tempo evitare che ci sia un contrasto tra loro. Ma la velocità spedita della macchina segnalava il trasferimento dal cuore della città verso una parte più esterna. L’aria di periferia cominciava a penetrare attraverso il finestrino, leggermente abbassato, perché vi passasse il fumo dell’ennesima sigaretta. Aveva la gola bruciata.
Per un periodo era riuscito a tenerla tra le labbra senza accenderla; funzionò per qualche tempo. Solo per qualche tempo. Ma quella notte era stata qualcosa di memorabile, aveva perfino scroccato a qualche viaggiatore del treno. Aveva comprato due pacchetti appena arrivato alla stazione di Roma. Lasciò il mozzicone al vento e scie istantanee di rosso si videro attraverso il vetro, poi chiuse il finestrino. Le palpebre erano pesanti, stanche perché non aveva chiuso gli occhi nemmeno un minuto. Dalle comunicazioni telefoniche qualcosa gli era stato riferito, ma niente di particolarmente rilevante. In effetti, al momento era stato solo convocato, questo sapeva.
Mentre pensava alla situazione, si appisolò per un poco, una mezz’ora, e ritornò con gli occhi aperti solo quando il veicolo si fermò.
Ora, l’odore nell’aria era nuovamente cambiato. Questa volta qualcosa di molto più intenso, ma allo stesso tempo familiare, un sapore d’infanzia. Salsedine e acqua s’insabbiavano, non molto lontano, a pochi metri. Il suono, dopo che ebbe preso del tutto conoscenza, era inconfondibile: il mare.
<<Diavolo non sapevo che dovevo fare il bagno in pieno novembre, peccato che non ho portato il costume>>.
L’autista abbandonò il veicolo prima di lui, aprì la macchina e gli indicò una grande villa che si trovava di fronte al mare. Adornata con piante e fiori in puro stile europeo, senza macchie esotiche, come palme ed altri vegetali.
<<Oh, ci sono pure le terme, vorrà dire che mi dedicherò a qualche fango di bellezza. Sa, ho vari punti neri che mi danno un fastidio a scovarli nello specchio. Lei non ne soffre?  Scherzo, ho capito benissimo che è una villa. Mica sono scemo! Ma dove siamo con esattezza?>>
L’autista non fece movimento, ma continuò con il suo atteggiamento distaccato. Era alto e molto giovane, meridionale anche lui con un accento calabrese. La carnagione tirata ed abbronzata, aveva colpito immediatamente l’attenzione di Luigi, poi l’abnegazione alle regole ed un accento inconfondibile, avevano dato conferma alle sue ipotesi.
<<Mi segua, signore!  Siamo a nord di Roma, naturalmente sul tirreno!>>
<<Naturalmente: il tirreno, come no. Ma certo, mi faccia pure strada! La visita guidata comincia>>.

Arrivarono sull’uscio della porta e non ci fu bisogno di bussare nessun campanello, una persona avanti negli anni e di viso autoritario, li stava aspettando. La porta si aprì immediatamente del tutto.
<<Si accomodi, agente speciale Febbraio, sono il colonnello Piovano. Ho evitato il campanello per non svegliare mia moglie. Capisce benissimo che questo non è un orario felice, solitamente appartiene solo a noi poveri servitori dello stato e a chi delinque. Ma la prego non resti sulla porta, entri. Menestrelli, si accomodi nel salotto, per lei c’è una fetta di torta e un succo di frutta. Io ed il nostro ospite dobbiamo allontanarci per qualche minuto. Ci scusi>>.
<<Ma le pare signore, anzi grazie per il pensiero! Grazie>>.
<<Di niente, faccia, faccia pure……>>
Pose la mano sulla spalla di Febbraio e si avviarono dal lato opposto indicato al giovane carabiniere. La casa dall’interno era ancora più grande di come appariva dall’esterno. Sobria nell’arredamento, non si concedeva niente di stravagante, qualche quadro alla parete e mobili in legno povero. Essenziale, tipicamente da uso weekend. Il colonnello fece strada e si accomodarono in una stanza non molto grande, che  usava come studio. Una scrivania, poltrona di pelle, due sedie per gli ospiti, computer, luce da scrivania, e tavolino per i liquori. Il colonnello amava l’essenzialità, era evidente. Si accomodò sulla gran poltrona di pelle.
<<Ci vorrà scusare, caro Febbraio, ma prima che lei arrivi al comando, abbiamo pensato di chiarire attentamente questa terribile situazione, almeno sfruttando le notizie in nostro possesso.  Un brutto caso che da anni ci tiene tutti in ansia. Lo abbiamo chiamato caso “scolopendra” perché l’assassino lascia accanto ai cadaveri una foto di quest’insetto…. Ah, mi scusi, sapeva che questa scolopendra fosse un insetto?>>
Prese il bozzetto da una cartella e lo passò alle mani di Luigi.
<<No, signore, veramente no! Pensavo che fosse uno di quei nomi di fantasia che l’arma attribuisce a casi un poco strani!>>
<<No, purtroppo, non è così. Comunque io non l’ho convocata per la parte tecnica del caso. Oddio, naturale che m’interessa perché risolvendo quella risolvo tutti i miei problemi. Parliamoci chiaro: quella parte l’assorbirà come una spugna al comando. Ma oltre il lato morale e la sicurezza, un uomo che dirige qualcosa di così importante, deve purtroppo preoccuparsi d’altre cose. Burocrazia è il pesce giusto da dare in pasto ai potenti. I risultati, lei mi capisce?>>
<<Credo di si, signore!>>
<<Bene Febbraio, allora mi ascolti attentamente: a capo della squadra investigativa, alle calcagna del serial killer, vi è il capitano Marchesi, da due anni. In modo informale le dico che ha qualche problema a casa e s’incolla spesso alla bottiglia. Giri e rigiri, quando un uomo crolla, accade sempre per gli stessi motivi. Ora questo ai fini dei risultati è irrilevante, voglio dire che non ha significato. Se mi siedo ad un tavolo di persone che “esigono”, non posso presentarmi con la scusa che un mio incaricato beve ed ha problemi con la moglie. Quindi entra in gioco lei. Dietro le quinte! Il nostro Marchesi resta il primo attore, un allontanamento sarebbe come dire: “qui abbiamo fallito tutti”. Intende?>>
<<E’ complicata come situazione!>>
Il colonnello strinse intorno al rigonfiamento addominale la cintura della vestaglia, poi con la punta delle dita dei piedi raccolse le pantofole con cui aveva giocato fino a quel momento. Si alzò in piedi, girò intorno alla scrivania e ripose nuovamente una pacca sulla spalla di Febbraio.
<<Nella vita, mi creda, niente è semplice. Oh certo tu hai delle idee, dei pensieri che sembrano giusti, innovativi, ma c’è sempre qualcuno che ridimensiona tutto e ti fa sentire un incapace. E questo quello che ognuno di noi pensa quando si trova a casa da solo, e questo penserà anche Marchesi. Io sono convinto che quell’uomo è sicuro della sua strada, lo è stato per due anni, ma nel frattempo cosa è successo? Morte? Efferati omicidi. In Italia, poi. Qui la gente non è abituata a queste cose. Passino cento morti l’anno per mafia, per camorra, per droga, ma un serial killer….. Oddio, nei nostri archivi c’è ne sono, ma la gente…..e poi la stampa. Giù ad affondare il coltello. E’ sempre così: cerchi di tenere la notizia nascosta, ma viene comunque fuori. Ho sempre pensato che qualcuno si vendesse lo scoop, ma non ho mai raccolto prove. Il bel paese, turisti, …no, questa nazione, non si può permettere un serial killer all’americana. No, non è possibile per il lato morale e né tanto meno per quello pratico. Comunque, sappiamo tutti che la stampa in un paese civile è sacrosanta, è segno di civiltà libertà e via dicendo…..ma chi riflette su quanto sia dannosa per un’azione investigativa di questa portata. Li ha letti  i giornali? La televisione?>>
Luigi tirò fuori il solito pacchetto, uno dei due che aveva comprato alla stazione di Roma. Oramai era quasi metà.
<<Le dispiace se fumo? Non vorrei costringerla ad aprire la finestra a quest’ora di notte!>>
<<Faccia, faccia…anzi n’approfitto per fumarmi un sigaro>>.
Il colonnello aprì il cassetto ed estrasse una scatola di legno di colore chiaro, anche se a chiazze aveva sfumature di marrone, come se fossero macchie di vinaccia, perché con il gioco di luci e di penombra, assomigliavano più ad un fucsia molto intenso.
<<Non mi guardi così, non è Cubano o Americano, ma appartiene alla nostra splendida Toscana, è artigianale. Li prepara un contadino che vive nelle vicinanze della mia fattoria, dove mi rifugio ogni volta che voglio scappare da questo letamaio e m’isolo in quella splendida e vergine realtà. In ogni modo, le avevo chiesto della stampa. Allora, ha seguito le notizie su questo caso?>>
<<Non nei particolari, ma sono a conoscenza che il caso in questione è il motivo della mia convocazione al Racis di Roma. In sostanza, signore, la telefonata mi è arrivata qualche ora fa, mi sono precipitato ed eccomi qua. In testa ho qualche stralcio di giornale e flash televisivi, ma le dico molto sinceramente che non mi sono interessato in profondità del caso. Intendo: ho seguito come spettatore e cittadino, qualcosa dalla stampa è uscito fuori, ma niente che….
Si, ora che mi concentro, lo ricordo perfettamente>>.
<<E quel qualcosa ha lasciato sale sulla ferita, caro Febbraio. E quanto ha bruciato. Siamo nell’occhio del ciclone. Ma ora veniamo alla parte conclusiva del nostro discorso.
La stampa sa. I politici vogliono risultati. Il capitano Marchesi è crollato, ma non lo caccio per non firmare una sconfitta dell’arma. Allora? Allora entra in gioco lei con pieni poteri! Incontrerà il magistrato Gonfalonieri che è già al corrente di questo cambio al timone. I giornalisti questa volta fuori. Dobbiamo fare attenzione a questo particolare.
Riguardo al  Marchesi e alla sua squadra....lei è un uomo di mondo e capirà benissimo che non verrà accolto con petali di rose, ma con molte spine. Questo però non toglie che dovranno seguire i suoi ordini alla lettera. Quello che hanno nella testa è qualcosa che purtroppo non posso comandare. Bene, questo è tutto! Mi raccomando Febbraio, faccia del suo meglio ed anche di più. Naturalmente accetta l’incarico. Io lo do per scontato>>.
Febbraio prese a manipolare il cinturino del proprio orologio e poi si rivolse con tono pacato e di rispetto al proprio interlocutore.
<<Signore è tutto chiaro, ma forse è meglio che io sappia qualche particolare più approfondito prima di mettere piede negli uffici e nei laboratori del Racis>>.               
Nei secondi successivi non accadde nulla, tutto rimase in un perpetuo ristagno.
<<Allora, Febbraio, cosa vuole chiedermi?>>
<<Cosa mi aspetta?>>
Il colonnello ebbe un leggero prurito sulla punta del naso che alleviò con un vorace colpo di mano, prima di riportarle entrambe nelle tasche del cappotto.
<<Ardua domanda! Il buio totale, brancoliamo nel buio come succede sempre quando si decide di cambiare i vertici delle operazioni di comando. Naturalmente è così e penso che l’abbia immaginato, lei occuperà il posto del capitano del Racis operativo alla sezione investigativa di Roma. La cosa non è molto comune, come le ho riferito prima. Tutto il rispetto per la sua persona, ma l’operazione mi addolora non poco. In ogni modo devo pensare al bene del paese e non ai particolari morali. Quindi le ripeto: pochi indizi, tanta reticenza, ed un gruppo che non lavorerà di cuore con lei>>.
Poi ci fu una nuova pausa,  Febbraio si abbandonò con il capo all’indietro e si passò nuovamente la mano sul viso, anche se con meno energia di qualche secondo prima. 
<<Tiene molto al capitano Marchesi, colonnello?>>
Anche a questa domanda il Colonnello non mostrò disappunto, anzi pareva che l’aspettasse come se volesse togliersi un peso al più presto.
<<Gli ho assegnato personalmente l’incarico, ho interagito con i magistrati affinché si affidassero alle mani del capitano Marchesi, ma purtroppo ha fallito e di conseguenza ho fallito anch’io. Un errore, una serie d’errori che hanno portato alla morte d’altre povere donne. Tragici eventi che si sono accomunati all’inesperienza del capitano. E’ strano come si possa arrivare in alto nella vita, ma è altrettanto strano come si possa cadere fino al fondo in così poco tempo>>.
In quel mentre Luigi decise di aprire la finestra e sgranchirsi le gambe, lasciando entrare aria pulita.
<<Mi scusi, ma devo prendere un po’ d’aria. Capisce tra fumo di sigarette e di sigaro….Mi scusi>>.
<<Aveva detto che non le dava fastidio>>.
<<Non è solo quello, ma sono anche queste maledette sigarette. Dio, dovrei buttarle nella spazzatura>>.
Si allontanò qualche metro e raccolse il moccichino dalla tasca della giacca e lo portò velocemente alla bocca per contenere due colpi di tosse.
Poi Luigi rientrò. I due continuarono a discutere della situazione.


CAPITOLO V    


Roma centro.  27 novembre 2003.  
Ore 7.15
Prossimità degli uffici del Racis.




La notte era passata insonne e gli occhi si ribellarono al cervello che li avrebbe voluti sempre accesi ed attivi, allora Luigi potette abbandonarsi ad un breve, ma profondo sonno che si spezzò solo quando avvertì la voce dell’autista.
<<Siamo arrivati, Signore. Il comando del Racis è appena dopo quest’incrocio. Tra qualche metro c’è un bar se vuole fermarsi per rinfrescarsi e una tazza di caffè ...>>   
<<Certo, grazie, ma più urgenti sono le sigarette: sono quasi terminate>> tartagliò Luigi con la bocca impastata da fumo e caffé.
<<Qualche pacchetto di sigarette i baristi lo tengono nascosto sotto banco, penso che questo non sarà da meno. Se si vuole preparare, tra qualche istante saremo arrivati>>.
<<Oddio, ho ancora un pacchetto intero, ma se entro con la testa nel lavoro, non avrò tempo per comprarle>>.
L’autista fece scivolare le mani sul volante leggermente e con gran naturalezza, mostrando piacere e gusto per il lavoro che faceva. Si fermò accuratamente senza trascurare l’utilizzo del freno a mano, poi si slacciò la cintura di sicurezza.
<<Ora che siamo fermi, è meglio presentarci: mi chiamo Paolo Menestrelli, in forze al Racis di Roma……. >>   
Luigi si passò le mani tra gli occhi, poi la lingua tra le labbra e si mise retto con la schiena proprio di fronte alla testa girata verso l’indietro dell’autista.
<<E’ un piacere conoscerti Menestrelli! Sei della squadra del capitano Marchesi?>>  
Il ragazzo rimase visibilmente stupito e lasciò che la sua giovane età venisse fuori, nonostante l’apparenza sicura e ferma che s’era stampata in faccia fin dal primo momento.
<<Si, signore…perché questa domanda?In verità, non ho proprio mansioni scientifiche-investigative>>.
<<Ti faccio questa domanda perché sono a conoscenza che non avete brillato con il vostro lavoro. Per questo motivo sono qui! Questo caso Scolopendra vi ha mangiato l’anima, non è così?>>
Il ragazzo diede l’impressione di accusare il colpo con poca leggerezza, quando una chiazza di colore rosso gli si stampò su tutto il viso. Qualche goccia di sudore si formò sulla fronte e gli zigomi arricciati, come se fosse la sudorazione di una bruciatura a fuoco.
<<Con tutto il rispetto, ma sono dell’ opinione che…..>>
<<Tutto il rispetto cosa? Devo parlare al più presto con il Capitano Marchesi e decidere al meglio la situazione. Ci saranno cambiamenti, notevoli! Le notizie sulla vostra squadra non sono delle migliori, non giro intorno agli argomenti io. Permettimi una confidenza: ma siete nella merda e credimi io non sono per niente contento d’entrarci. E’ più difficile lavorarci, capisci?>>
Era quello che aspettava. Buttò la borsa verso il lato della macchina e gli si sferrò contro con una violenza disumana. Se fosse stato il capitano Marchesi, probabilmente, non si sarebbe comportato cosi, ma ad un allievo le cose si potevano dire in faccia. Decise. Proprio come uno sfogo, una critica gratuita, in fondo il giovane Paolo Menestrelli, cosa poteva farci, e soprattutto cosa poteva rispondere? E’ simile a quando il lupo fa la voce grossa con l’agnellino e non con il cane, ne ha sempre ragione. Di Febbraio non si può dire che si sia sempre comportato lealmente con le persone che hanno intrecciato la sua sfera di vita.
La faccia del ragazzo assomigliava alla testa di un pappagallo, che ascolta gli umani parlare o almeno cerca di decifrare quello che dicono per ripeterlo al più presto.
<<Non… credo di… aver capito… Il problema, secondo me, è che non si è tenuto conto dell’avversario. Questo è un gran figlio di puttana. Ci siamo dietro da anni, ma niente. Il capitano Marchesi pensa di essergli arrivato alle spalle varie volte, ma…… Sa, nei pool investigativi si diventa una sola famiglia, si resta intere notti a guardare filmati, fotografie, a rileggere tutti gli esami. Io ho aspettato il capitano ore di continuo, certo non ho ancora la competenza, ma le posso garantire che c’è stato un impegno grandissimo da parte di tutta la squadra. Mi creda, questo è un figlio di puttana in due anni non è uscito niente e va scorazzando per tutta L’Italia>>.
<<Zona circoscritta, allora? Bene, non è tanto male come inizio……  Sono sarcastico, se gira tutta la nazione siamo rovinati! Il colonnello già me n’aveva parlato. Ahi, comincio a dimenticare le cose…. Scusami Menestrello, mi riferivo al Killer. In ogni modo, tornando a noi, avete fallito; è per questo motivo sono qui, okay? Ora tutti voi dovete comprendere che non sono io il nemico, l’estraneo che è venuto a rompere le palle. Bisogna che si collabori tutti insieme. Quindi ora portami negli uffici del Racis, perché voglio incontrare il capitano al più presto!>>
Raccolse la valigia e la tirò con forza a sé, poi fece scivolare le mani aperte per tutto il viso e lanciò un lungo sbadiglio che si disperse in tutta la macchina.
<<Aspetta! Prima mi faccio un bel caffé e magari un cornetto con tanta cioccolata, tu puoi seguirmi oppure restare qui e contare tutte le macchine che passeranno fino al mio ritorno. Dopo mi farai un bel resoconto. Diavolo, lo avevamo già deciso di fare colazione ed invece parlando mi dimentico le cose!>>
Era impossibile isolare i sentimenti che entrarono nella pelle del ragazzo in quel preciso istante, tuttavia Luigi avvertì un senso di rigoroso sollievo per aver messo a posto il primo lato negativo di tutta la faccenda. Per entrare nell’habitat di un criminale bisogna amalgamarsi con le regole della strada e della civiltà: chi esce dall’accademia non è il risultato perfetto per raggiungere tale scopo. E quel ragazzo sembrava un opuscolo dell’università. Luigi Febbraio odiava le matricole e di conseguenza amava metterle in ridicolo.
Il bar si trovava non lontano dalla sede operativa del Racis, proprio come gli aveva riferito Menestrelli, qualche minuto prima.
Erano le  ore 7.20. Poteva concedersi una colazione con tutta calma.
<<Un cornetto con cioccolata e poi un caffè ristretto con una goccia di schiuma di latte, per favore. Cortesemente potrei occupare per qualche minuto quella sedia e il tavolo nell’angolo?>>
<<Come no! Si accomodi pure che le mando il cameriere immediatamente>> rispose il proprietario del bar che sedeva su uno sgabello proprio dietro l’angolo cassa.
Intanto il ragazzo, come uno sventurato, attraversò la porta del bar: diede un’occhiata veloce piegandosi sul busto, per poi raggirare un massiccio pilastro che puntellava la sala.
Quando i lineamenti di Luigi gli saltarono improvvisamente a vista, gli si sbloccarono tutte le ossa e riuscì a trasportarsi fino al corpo dell’uomo. Mosse con timore una sedia e l’avvicinò per potersi sedere al tavolo. Luigi tralasciò per qualche secondo la colazione e lo fissò diritto negli occhi.
<<Che c’è, ti è caduta la lingua?>>
<<No..niente di particolare, ma le volevo…. chiedere…>> grugnì il ragazzo con tono comunque timoroso.
<<Aspetta! Aspetta! Il nostro lavoro è caratteristico perché si rispettano le priorità e se vieni a parlare della discussione appena terminata, senza avere prima compiuto un’altra azione, mi dimostri di non aver capito niente. Capisci quello che voglio dire? Mangia qualcosa, qualche minuto di riposo non farà male a nessuno dei due. Anche tu hai passato la notte in bianco…quindi, ora, colazione, poi di capofitto in questo diavolo di caso Scolopendra>>.
Proprio in quel momento il telefonino di Paolo squillò: il ragazzo apparve sorpreso di quell’improvvisa telefonata. Ma quando vide il nome sul quadrante, ebbe un gran sospiro di sollievo.
<<Capitano Marchesi, a quest’ora? Certo… è con me….. l’agente Febbraio, siamo al bar per la colazione. Come dice? Non la sento bene….ah, ho capito! E’ già in ufficio? Beh, penso che una mezz’oretta e saremo su>>.
Lasciò cadere il telefono in tasca, con lo sguardo abbassato al pavimento, poi, costretto dalla situazione lo rivolse nuovamente al viso di Febbraio.
<<Era il capitano, dice che ci aspetta. Che facciamo?>>
Luigi morsicò voracemente il cornetto, poi un sorso di latte, e ancora un morso.
<<Non mi piace ripetere le cose all’infinito! Ho già parlato! Prima mossa: la colazione>>.
Paolo pensò quello che c’era da pensare, e non furono apprezzamenti per la morale di Febbaraio.
Erano quasi le otto, quando uscirono dal bar, Luigi aveva comprato tre pacchetti di sigarette, e nonostante gli servissero, cadde in una controversa discussione con il titolare perché non aveva la licenza per venderle. Una discussione che durò circa venti minuti, in cui non si presentò come un agente di polizia.


Ore 08.05. Roma era bellissima, probabilmente più di quanto lo stesso romano di nascita poteva comprendere.
Le finestre degli alberghi costellavano i viali come il disegno luminoso di un firmamento compiuto, le strade si lanciavano in curve, poi rettilinei, tra passato, presente e futuro. Un regalo di figure reali e surreali, che si schiudeva fino all’orizzonte immaginario dello spettatore. Queste le sensazioni più forti e presenti al primo impatto con un regno che vive al di sopra d’ogni altro contesto del mondo. La Città eterna!
E Luigi senza l’intenzione di spiegarsi tali emozioni, le avvertiva inerme e compiaciuto.
Il dipartimento centrale del R.A.C.I.S. si ergeva tra due palazzi del 900, rinchiuso in un perimetro protetto tra lampioni e alberi nani da marciapiedi, che giravano intorno, alternati da cartelloni colorati pubblicitari, che da terra si alzavano per circa un metro.
La giornata si presentava soleggiata, ma l’aria fredda di fine novembre fischiava di buona forza tra le giacche dei primi passanti mattutini.
I due erano usciti dal bar e avevano parcheggiato qualche isolato oltre il punto d’arrivo, in un piazzale pubblico. Luigi così aveva preferito, contro il parere di Paolo che avrebbe voluto approfittare dei parcheggi sotterranei del Dipartimento, proprio sotto gli uffici operativi.
<<Perché? Possiamo usare quelli, perché camminare per raggiungere l’ufficio?>>
<<Per ambientarmi, ho bisogno di entrare dolcemente nelle nuove situazioni, per intenderci: dalla porta secondaria. Capisci? Devo annusare gli odori, captare i ronzii ed immagazzinare tutte le nuove notizie. E’ il modo per presentarmi con la guardia abbassata, così se qualcuno ha intenzione di colpirmi lo fa senza indugi e quindi gli posso rispondere picche…>>
Mentre parlava, le ciglia apparivano più folte ed il naso prese una forma a punta.
<<Io non riesco a capire. Lei mi chiede continuamente: “capisci?“  “intendi?“ ! Ma io le dico la verità, la conosco da appena un paio d’ore e già mi ha sconvolto la vita. Con tutto il rispetto, signore, non è che si prende gioco di me?> rispose Paolo con un’evidente e crescente contrarietà al modo frenetico di pensare del suo interlocutore.
<<Bene! Per me non è un problema quello che pensi. Siamo sulle tracce di un animale che gode nell’uccidere donne: come pretendi che io mi comporti in modo razionale>>.
Il ragazzo s’impalò tra il marciapiede e il bordo della strada: un attimo, seguì speditamente un taxi con il clacson vibrante nell’aria per segnalare il suo passaggio. Era impressionante come quell’uomo entrava in confidenza, in modo lesto, quasi come se fosse un abuso. In fondo si conoscevano solo da poche ore. Al giovane carabiniere la cosa non era gradita, anzi fastidiosa, si, terribilmente tosta da ingoiare in quella mattina di novembre.
<<D’ora in poi non le chiederò assolutamente più nulla, anzi eseguirò senza commentare, mi costa meno dispendio d’energia. Non voglio tirarmi su per il bavero da solo, ma anche io non sono una mozzarella, sono in forze al R.A.C.I.S., non è cosa di tutti. Dio Santo, ma perché mi sto giustificando, ho l’impressione di essere a scuola>>.
<<Bravo, diciamo che un giustificazione è d’obbligo, visto i risultati, tutti meritate un poco di ripasso! Ora, ragazzo, conducimi agli uffici, è meglio che cominci a lavorare con il massimo impegno. Ogni attimo potrebbe salvare la vita di una possibile vittima>>.
Proseguirono lungo un viale corto ed arrivarono all’andito del palazzo, fino a giungere di fronte all’insegna d’ottone, inchiodata al muro:
R.A.C.I.S.:

RAGGRUPPAMENTO
ARMA
CARABINIERI
INVESTIGATIVA
SCENTIFICA
<<Per questo dipartimento e per quello di Parma passano in analisi i casi più complicati italiani. Un mare di sangue e di pazzia. A volte ho il desiderio di trovarmi tra le mani una bacchetta magica per porre fine a tutta questa crudeltà>>.
Paolo ascoltava le parole del nuovo capo con un interesse, forse perché quel discorso nascondeva particolari inconsueti, evidentemente con risvolti umani e toccanti, accesi di passione. E la forza, la sicurezza che aveva caratterizzato quell’omone fin dall’inizio, ora lasciava spazio ad un lato dolente, frutto chiaramente di tante esperienze grottesche.
<<Goditi la tua giovane età, perché  percorrendo la strada della vita t’imbatterai nella sua reale faccia: la faccia della morte>> continuò ancora Luigi.
<<Mio Dio, che pessimismo! Signor Febbraio, ma ci sarà anche qualche lato positivo?>>
Luigi restò ancora impalato con lo sguardo fisso sulla targa d’ottone, posta appena un palmo più dell’altezza del suo naso. Poi riprese con rapido colpo di collo a guardare il ragazzo, desiderando che seguisse più attentamente quello che stava dicendo.
<<Naturalmente! In tutte le cose, vi è uno sviluppo corretto com’è naturale che ci sia quello negativo. Nel nostro caso, quando si arriva alla cattura di un maniaco, allora ti rendi conto di aver percorso una strada con una direzione precisa e ben definita. Tutto il resto, la fatica, il tempo impiegato, si trasforma in un particolare insignificante. Insomma, nel momento in cui ho cominciato ad esaminare l’animo umano, ho dovuto fronteggiarmi con la consapevolezza che nulla è saldo o privo di vibrazioni, ma al contrario tutto è in gioco in qualsiasi momento. E’ un ballo continuo, di conseguenza, se vuoi reggere il passo, non ti resta che ballare all’impazzata, senza tenere in considerazione la tua volontà>>.
<<Certamente, il discorso fila!>> riprese Paolo <<Non giocare il tutto per tutto rappresenterebbe perdere prima dell’inizio della partita>>.
Il capo, a queste ultime parole dell’allievo, rivolse il polso mostrando in pienezza il quadrante dell’orologio.             
<<I minuti passano come la sabbia tra il palmo della mano: è ora di entrare e di prendere posizione. Il tempo delle chiacchiere è giunto al termine. Menestrello, non ti ho ancora chiesto che grado hai? Sei molto giovane>>.
<<Sottotenente, ho vinto un concorso per il “ruolo speciale”, aperto a chi ha meno di trentadue anni d’età. Mi sono laureato in medicina e poi ho deciso di entrare nell’arma. Senza offesa i miei voti fanno paura, da sempre. Ho sgobbato come un asino sui libri per tutta la vita, e nella vita privata che faccio un poco schifo. Non tanto poco, ma lasciamo stare. Ho un incarico tecnico-logistico, da qualche anno mi hanno affidato alle cure del capitano Marchesi. Il mio sogno è il Ris, sa per la televisione, la notorietà…e poi qui non è che ho combinato gran che…. c’è gente d’esperienza, insomma io ci sono più per pompa, come ha visto mi fanno fare l’autista…>>
<<Però, Menestrelli, sei un poco “maccarone” di natura: dire ad un superiore, che potrebbe mettere una buona parola, che ami il RIS per la televisione. Insomma un poco d’astuzia, e che diamine…devo darti ragione sul personale: sei una frana. Su andiamo, non te la prendere vedrai che imparerai un poco alla volta: sei meridionale?>>
<<Calabrese, signore>>.
<<Dall’accento non lo avevo capito>>.
<<Anche io dall’accento non avevo capito che è napoletano, signore>>.
<<Attenzione, Menestrelli, io sono Salernitano, è molto diverso, non in peggio o in meglio, ma è diverso. Capito?>>
L’ambiente s’era improvvisamente svuotato da ogni altro rumore: gli uomini delle pulizie avevano lasciato l’androne del palazzo. Salirono fino il secondo piano e Paolo accompagnò l’agente Febbraio in una stanza accogliente con un salottino, e un tavolo di legno scuro.
Luigi lanciò la borsa sul divano di pelle che si trovava proprio sotto l’ampia finestra della stanza. Sulle pareti bianche, che ricordavano un ufficio più di quanto facesse l’ambiente stesso, penzolavano calendari e stendardi con i colori storici dell’arma dei Carabinieri.
Un piccolo frigo a destra della scrivania, reggeva un distributore dell’acqua. Poi di lato, a coprire le pareti, mobili d’archivio.
<<Ecco, siamo arrivati nella nostra tana, qui bisogna mangiare, dormire e vivere per i prossimi mesi, senza sosta, finché non porteremo la selvaggina a casa>>.
<<La prospettiva non è allettante, senza offesa abbiamo molte stanze a disposizione>> rispose Paolo.
<<Già, non è allettante per niente, anzi, a proposito di vita sacrificata, ho dimenticato di chiederti come sei messo con la vita privata!>> 
<<Non ho capito bene la domanda!>> riprese sorpreso il ragazzo, che appariva sempre più stordito da quel vortice di novità.
<<Oh, ti conosco da poco, ma in certi momenti mi sembri di coccio! Scusami, ma sono diretto e le cose preferisco dirle in faccia! Allora, visto e considerato, sarò ancora più chiaro: sei fidanzato oppure sposato? Insomma hai necessità di rispettare orari… e stupidaggini di questo tipo?>>
<<Ah, a questo si riferiva; no, non si preoccupi! Vivo da solo in un monolocale alla periferia della città: i miei genitori sono rimasti al sud, oramai vecchi e stanchi non hanno voluto seguirmi, quindi sono disponibile. Lo dico con una certa convinzione perché comincio ad appassionarmi alla situazione, anche se, devo confessare, non so cosa mi aspetta e quali compiti svolgere. Soprattutto, se me ne farà svolgere qualcuno>>.
Luigi dava un’occhiata in giro. Quello era l’ufficio del capitano Marchesi. Aveva notato la foto di famiglia sulla scrivania, e altre di bambini appesi alle mura.
<<E’ normale che avrai un compito, c’è bisogno dell’aiuto di tutti per risolvere questo caso. Ma dov’è il capitano?>>.
Poi continuò a guardarsi in giro. Il colonnello Piovano aveva parlato dei problemi dell’ufficiale immediatamente, appena si erano incontrati nella notte trascorsa. Alcol ed eventi personali, intimi, che come un tornado avevano soffiato nella sua vita. Ma in tutta quella storia, che ruolo aveva avuto il ragazzo? Era evidente che sarebbe stato vano chiedere spiegazioni in merito, perché se ci fosse stato ancora qualcosa da confidare, lui si sarebbe rifiutato di parlare. Forse tra loro il rapporto si era fortificato proprio nei momenti difficili, quelli in cui il Capitano perse la bussola e allora Paolo, con molte probabilità, rappresentò la spalla ideale per riprendere fiato. Di conseguenza il ragazzo riteneva la reticenza come un patto d’onore, una forma di rispetto dovuta all’amicizia che era nata tra i due.
Questo punto Luigi lo aveva stabilito fin dall’inizio e comprendeva che se ci fossero state altre notizie consentite alla conversazione, il ragazzo avrebbe continuato di sua spontanea volontà. Invece, come sospettava, tutto crollò nel silenzio. A Luigi non spettava altro che incontrare in Capitano Marchesi. L’attesa fu breve.







CAPITOLO VI


Uffici del Racis. 27 novembre 2003
Ore 08.17
Incontro con il Capitano Marchesi.




<<Salve Paolo, buongiorno agente Febbraio; è comodo? Il caffé è quasi pronto ed i cornetti sono stati appena sfornati. Abbiamo un fornetto…capisce, molte volte con le indagini scientifiche non c’è nemmeno il tempo di scendere al bar. Vi prego, non faccia cerimonie di rito!>>
Paolo si diresse nell’altra stanza e fece capire che avrebbe portato il caffé ed i cornetti. C’era un senso d’ospitalità strano.
Un poco freddo, ma perfetto nella forma. Luigi lo avvertiva, come se il capitano Marchesi non volesse far capire il suo risentimento per la presenza del nuovo capo.
<<E’ arrivato di buona ora, Febbraio?>> chiese il Marchesi.
<<Direi molto presto! Mi hanno proibito anche il tempo per i bagagli: sono letteralmente in mutande. Dovrò comprarmi qualcosa qui a Roma >>.
<<E’ il posto migliore al mondo per gli acquisti>>.
<<Si, qualcuno l’ha già detto: è la città migliore per spendere danaro!>> riprese Luigi con un tono di disappunto.
<<Ma si accomodi pure, la prego, intorno alla scrivania: saremo più comodi per scambiare qualche chiacchiera. Se lei vorrà ascoltarmi, ho molto da dirle>>.
<<Effettivamente caffé, cornetti e negozi d’abbigliamento m’interessano fino ad un certo punto. Sono qui a caccia, a caccia grossa: un serial killer, da quanto si dice in giro>>.
<<Bene, io sono la persona giusta per le sue esigenze. Come avrà saputo, mi è appena stato tolto il caso. Anche se vogliono salvare le apparenze, questa è la verità. E’ meglio non girarci troppo intorno. Per questo motivo lei si trova nel mio ufficio. Ieri per l’esattezza, mi è stata comunicata la notizia; capirà che ancora non sono pronto all’idea!>>
Luigi, mentre ascoltava, aveva già preso l’uso dell’ufficio: fumava la sua sigaretta, sorseggiava caffé e ogni tanto mostrava leggero interesse per quello che diceva il padrone di casa.
<<Senta, caro Marchesi, veniamo al dunque della discussione, mi pare che si siano fatte anche troppe ciance a vuoto. Se sono qui è perché lei ha fallito. Ora a me frega un fico secco di voi e del vostro codice d’onore, quello che m’interessa è risolvere la situazione al più presto e tornarmene a casa mia, al sud. Se lei dovesse intralciare il mio lavoro, non esiterei ad allontanarla, e se non mi fosse consentito, sarei io a chiedere le dimissioni. Resta il fatto, che una collaborazione sarebbe la cosa migliore. Sono stato abbastanza chiaro? Il colonnello Piovano mi ha detto di andarci piano, avere pazienza….bene, non sono mie qualità. Già mi frulla la testa per un compito molto delicato, certamente non perderò tempo con la forma o con i convenevoli. Sono uno che viene ascoltato perché arriva ai risultati! Se non fosse così, in alto mi farebbero la pelle senza pensarci un secondo. Ora veniamo al nocciolo>>.
Il capitano Marchesi non era molto alto, ma abbastanza giovanile e di bello aspetto, probabilmente non superava i quarantacinque. Vestiva con la divisa tirata a lucido e con i gradi ben in vista. Ma era evidente che tutta la sua fermezza si sgretolava rapidamente alle parole dirette e precise del suo interlocutore. 
<<Porca miseria, mi lasci passare il termine, ma lei le cose non le tiene troppe a marinare!>>
<<I cibi gustosi e freschi li consumo al momento, quelli avariati, li butto via senza pensarci troppo. A molti appare come un difetto, ma per me è un pregio!>> riprese di botto Luigi.
<<Bene, è come dice lei, non voglio restare fuori dal gioco. Ho lavorato troppo a questo caso per uscire dalla porta secondaria….. >>
<<Quale è stato il suo errore? Perché l’hanno silurata?>>
<<Come scusi? Io non sono stato….>> riprese il Marchesi sempre più sconvolto.
<<Ci sarà stato un motivo, un diavolo di motivo perché è finito in canottiera e ciabatte?>>    
<<Non le devo nessuna spiegazione, soprattutto mai nel mio ufficio; è un’umiliazione troppo grande!>>
<<Me la dia invece, è un modo per iniziare una collaborazione sana e costruttiva. Se giochiamo a carte coperte, non facciamo altro che avvantaggiare il nemico. Allora Marchesi, dove ha toppato?>>
L’ufficiale aveva la testa raccolta dal cappello nero dell’arma, ed era un modo per nascondere lo stato d’animo. Portava la visiera leggermente abbassata e chi gli stava di fronte provava difficoltà a scavargli negli occhi. Poi rispose con un filo di voce, timido ed intimo allo stesso tempo.
<<Il divorzio. Mia moglie ha chiesto il divorzio ed ho perso la testa per qualche mese, forse anche di più, ma non ho trascurato il lavoro e tanto meno messo in pericolo la vita di chi collaborava con me. Qualcuno, però, in alto, ha preso le decisioni senza sentire, ovviamente, la mia opinione ed eccomi qua: a parlare con lei e a giustificarmi come una matricola…..>>
Luigi quando s’accorse che l’uomo era alle strette, si placò, e impercettibilmente riprese la discussione. Il capitano era rimasto in piedi, proprio vicino alla porta, lo stesso posto che aveva occupato fin dall’inizio dell’incontro.
<<Sapeva che avrebbero affidato a me l’incarico?>>
<<Era nell’aria già da molto tempo e le garantisco che, quando ne ho avuto conferma, non mi sono dispiaciuto più di tanto; la sua fama la precede ovunque nell’ambiente>>.
<<La ringrazio>> riprese Luigi con un tono più gentile <<Se dovessimo collaborare……. se io decidessi di reintegrarla nuovamente nello staff in modo attivo, e non da manichino, come si aspetterebbero i suoi capi, è a conoscenza di quello che le toccherebbe?>>
<<Sia più chiaro, Febbraio! Oramai mi aspetto di tutto e certamente non sono nella posizione di poter trattare!>>
Luigi appoggiò allo schienale le spalle e strinse le mani dietro la nuca, come amava sempre fare in particolari momenti eccitanti e determinati, dopo aver spento la cicca con fare esaurito.
<<Se dovessi battere ciglio in senso negativo, la spedirebbero a casa. Ora, molto sinceramente, a pelle, non penso che sia un incapace, anzi tutt’altro. Quindi mi farebbe piacere se lei ed io collaborassimo, ma… C’è sempre un ma! Io sarò l’unico a prendere decisioni e l’unico a fornire le indicazioni secondo le quali si svolgeranno le indagini. Tutto quello che le mie labbra sputeranno, sarà come oro colato per tutti, senza recriminazioni di qualsiasi genere. Legge e basta!>>
Marchesi ingoiò velocemente il grosso rospo, poi con fatica recuperò le forze per una risposta di circostanza e smorzata dalla saliva ruvida.
<<Come ho detto, non sono nella condizione di poter trattare: la ringrazio per l’opportunità che mi concede e naturalmente sono a sua completa disposizione!>>
<<Bene! In sostanza, io sono qui per prendere quanto più possibile e non offrire niente in cambio. Per quanto cruda, è la pura verità ed è giusto chiarirla adesso, prima di cadere in spiacevoli equivoci!>>
<<E’ tutto chiaro, agente speciale Febbraio!>>
 <<Okay, non mi resta che crederle sulla parola; dovrò fidarmi di quello che dice! Ora voglio incontrare gli altri dello staff, visionare gli indizi ed i particolari che avete raccolto. Ho bisogno del quadro della situazione e di spiegazioni molto dettagliate da parte sua. Cominciamo?>>
Paolo lasciò la stanza nuovamente. Luigi accese l’ennesima sigaretta, lanciando nuvole consistenti di fumo bianco per tutta la stanza, facendo intendere che di chiacchiere n’avesse abbastanza, voleva entrare nel vivo della vicenda.
Marchesi faceva leggeri passi vicino alla porta. Non disse niente in quei pochi minuti che fu solo con Febbraio. Avrebbe voluto, ma la lingua gli diventò secca e un bicchiere d’acqua non lo aiutò come sperato. Paolo rientrò.
<<Ci aspettano tutti nella stanza delle riunioni, capitano>>.
<<Bene!>> rispose Marchesi che non attendeva altro <<Ci vuole seguire, agente Febbraio?>>
<<Come no, eccomi!>>

La sala delle riunioni non era troppo lontana dall’ufficio del capitano, qualche metro del corridoio bianco e si trovarono alla meta. C’era un tavolo ovale al centro, un mega-schermo al plasma in fondo, protetto dalla luce da una gran tenda nera che al momento era aperta e lasciava entrare bagliori dall’estero. Sul lato, tre computer con due giovani ufficiali ad orchestrare gli aggeggi. Ed infine una pila di fascicoli colpì l’attenzione di Luigi, proprio sul tavolo ovale. Avrebbe voluto che il contenuto fosse già nella sua testa.
<<Signori, un poco d’attenzione!>>
Il bisbigliamento s’interruppe all’istante, quel vociferare sottile, ma penetrante, aveva dato l’impressione di chiacchiere da donne di quartiere. Parlavano del nuovo capo al timone, sicuro che era questo l’argomento. Marchesi, raggiunta l’attenzione di tutti, riprese il discorso; c’erano circa dieci persone nella stanza, tutti carabinieri con incarichi speciali.
<<Bene, grazie. Qui, oggi abbiamo l’agente speciale Luigi Febbraio, si occuperà del caso scolopendra. Intendo dire che da oggi in poi noi tutti seguiremo le sue indicazioni. Inutile che racconto le referenze del signor Febbraio, sono sicuro che il suo lavoro investigativo è arrivato alle vostre orecchie. Ragazzi, con l’occasione voglio ringraziare tutti, ma questo cambiamento al timone è giusto. Ci siamo arenati. Siamo fermi al palo, qualche particolare è sfuggito, ora dobbiamo collaborare tutti perché la soluzione venga fuori. Qui con noi non ci sono, capi, o magistrati, è come se fosse una riunione di famiglia. Quindi guardiamoci in faccia e diciamoci le cose come stanno: il nostro è un mezzo fallimento.
L’agente Febbraio appartiene alla polizia, chi ha in testa queste distinzioni è meglio che da domani mattina resti a casa. Naturalmente le responsabilità del fallimento sono mie, ma questo non significa che dobbiamo passarci la pece calda l’uno con l’altro. Lavoro, lavoro ed ancora lavoro, sotto la guida del nuovo capo: l’agente Febbraio. Prego, si accomodi pure>>.
Luigi fece un passo al centro della stanza, proprio di fronte al tavolo, tutti gli altri erano riuniti e raccolti intorno alle forme morbide del mobile. Aspettavano qualche parola.
<<Bene, il capitano Marchesi è stato molto chiaro, ma non sono d’accordo con lui che il vostro è un fallimento. Qualcosa è sfuggito, ma non bisogna disperare, certo è la parte morale che ci fa male, dal punto di vista delle vittime. Ma questo è un gioco brutale: una partita di poker. Ora dobbiamo pensare a vincere la nostra mano. Niente rimpianti, nessuna recriminazione. Risultati e basta>>.
In quel momento l’attenzione era salita; c’era bisogno di quelle parole perché tutti vogassero nell’identica direzione, e allo stesso tempo bisognava riprendere gli uomini d’animo.
<<Bene! Con chi, con cosa abbiamo a che fare?>> chiese diretto Febbraio, dopo le frasi di presentazioni.
Il capitano Marchesi, lasciata di scatto la propria sedia, prelevò un fascicolo dal tavolo e lo aprì velocemente. Poi cominciò a raccontare.
<<Un mostro! Un Mostro che agisce in modo asciutto e preciso: non dimostra manie di grandezza e soprattutto non è interessato a strafare, quando commette i delitti…… Si adopera senza errori, con raziocinio e velocità! Il suo unico intento è di uccidere, tutto il resto è superfluo>>.
<<Che cosa vuole dire di preciso? Soprattutto mi faccia capire come siete arrivati a questa soluzione!>>
Il capitano fece segno di accendere lo schermo, la tenda si chiuse e la stanza restò al buio, prima che sarebbero arrivate le immagini.
<<Quest’uomo uccide in modo diretto e veloce, un taglio pulito alla gola e poi all’addome. Tutto qui! Sulle labbra delle vittime e nelle vie respiratorie sono state rinvenute tracce di cloroformio. Liquido e volatile, l’induzione è veloce e potente. Sulle labbra di qualche vittima abbiamo scoperto una fibra di lino: evidentemente usa un panno imbevuto della sostanza, la quale ha un principio attivo molto potente. Niente sperma, non si masturba, nessuna traccia di saliva, non bacia o tanto meno lecca le vittime. Ah, dimenticavo tutte donne!  Sette per la precisione ed un’ottava, Giacobini Stefania, vittima d’aggressione, ma che per fortuna è scampata alla morte. Ora è ricoverata all’ospedale S. Maria Goretti di Latina, naturalmente protetta da nostri militari. Lei vive a Spigno Vecchio, un comune della stessa provincia. L’aggressione è avvenuta nel comune di Velletri, in provincia di Roma. Punto d’unione tra le vittime, zero, tranne un particolare….>>
<<Cioè>> chiese Febbraio, mentre dondolava sulla sua sedia e guardava le immagini delle donne uccise.
<<Tutte professioniste, avvocati, commercialisti, periti, ma indipendenti che viaggiavano ed assumevano lavori a contratto. Abbiamo rovistato nelle loro agendine, tra la posta elettronica e quant’altro…>>
<<Cosa è uscito fuori, mi dica Capitano. Qualcosa in comune? La sua faccia fa presagire una sorpresa>>.
<<In effetti si, Febbraio, alcune agendine di quelle donne scottavano: numeri di telefono ed appuntamenti con uomini, che, dopo lunghi interrogatori sono crollati, ammettendo che non si trattava d’incontri di lavoro. Certo, non tutte avevano questi intrallazzi, ma è sembrato un punto in comune.  Li abbiamo interrogati, alla fine molti sono crollati: s’incontravano per momenti di libidine. Qualcuna delle vittime incontrava lo stesso uomo anche tre volte al mese. C’èra di mezzo un’agenzia d’escort che organizzava incontri e feste nelle ore del giorno per non dare nell’occhio, altre facevano tutto da sole. Madri che potevano divertirsi e partecipare a festini senza destare sospetti a casa, un’organizzazione davvero eccellente, ma dalle indagini non è uscito niente. Estranei ai delitti, molti sospetti, ma prove niente. Quindi eccoci qui a discutere ancora di questo terribile caso>>.
Febbraio si toccò il pizzetto con energia, sfregando sui peli neri e poco curati. Aveva gli occhi lucidi e le poche ore di sonno della notte prima si facevano sentire, ma bisognava lavorare.
<<Quindi mi dice che alcune delle vittime avevano uno scheletro nell’armadio? E chi è libera da questa ipotesi, lo è solo perché non abbiamo prove in merito: insomma pensa che tutte siano accomunate da questo particolare?>>
<<In effetti si, c’è poco da girarci intono. Il sospetto ti viene, ma è solo un sospetto; non posso garantire che anche alle altre a cui non è stato attribuita una vita extra-coniugale, secondo le indicazioni delle indagini, non siano state sulla stessa lunghezza d’onda delle altre. Se fosse così, avremmo una pista, ma non posso darle questa notizia. Abbiamo tastato il terreno, indagato intorno a quest’ambiente, ma la cosa non ha procurato frutti. E’ qualcuno che agisce per vendetta, è un’azione punitiva; il problema è scoprire chi sia il nostro uomo. Le scappatelle delle vittime potrebbero essere solo una coincidenza e non un fattore scatenante. Ha paura del sesso e delle donne, le uccide, le punisce, ma sta attento a non sfiorarle. E’ molto strano come atteggiamento. Poco consono a canoni d’informazioni raccolti fino adesso. Con il luminol non abbiamo ritrovato nessuna traccia d’altro sangue se non quello delle vittime, naturalmente abbiamo archiviato decine di esami su peli, tutti differenti dall’altro, ma il risultato del dna ci ha portato a sconosciuti, perché tutti incensurati. Gli abiti, soprattutto invernali sono una vera calamita per i capelli, ma siamo stati sfortunati.
Quindi c’è la forte probabilità che il nostro uomo sia anche incensurato. Ci siamo serviti anche di una collaborazione di un profiler americano; se vuole abbiamo la registrazione del suo intervento: risale a qualche mese, naturalmente>>.
<<Mi faccia ascoltare, Marchesi, più so e meglio è. Faccia, faccia>>.
Marchesi segnalò ad un collaboratore di inserire i dvd in questione.  La faccia del profiler americano occupò tutto lo schermo:
<<Come ben sapete, signori cari, il compito del “profiler“ è quello di redigere il quadro psicologico dell’assassino seriale. Chi è? O meglio, chi potrebbe essere? Allora s’inizia con la circoscrizione di quei piccoli particolari che le vittime hanno in comune tra loro, affinché si possa isolare quell’anello che collega il tutto all’assassino. Io sono qui per questo, mi chiamo Peter Freys; naturalmente dal nome e dall’accento potete dedurre che non sono italiano. Lavoro nell’unità di scienze comportamentali:
“The Behavorial Science Unit”, in breve Bsu. Naturalmente un ramo investigativo dell’ Fbi .
Il soggetto per il momento è un UNSUBS, ovvero un “Unknown subjects“, letteralmente nella vostra lingua: ancora in libertà- sconosciuto.
Quindi è compito del profiler stabilire il cosiddetto “profiling“, affinché il nostro uomo o donna non sia più un UNSUBS, ma diventi un corpo con una faccia ed un’identità. Ho letto e visto le foto dei delitti e quindi è possibile stilare una bozza primitiva:
Alto, oltre un metro e ottanta centimetri, di peso intorno ai cento chili. I dati sono stati rilevati dalla profondità dell’impronte sul terriccio nella stazione ferroviaria e precisamente sul bordo del fosso dove ha lasciato il corpo della guardia. La banca dati delle orme ha stabilito che al momento indossava le “adidas stan smith”, fabbricate nel 2001/2002. Numero 45. 
In quel punto il terriccio era particolarmente morbido e il nostro uomo si è soffermato per qualche minuto per seppellire il cadavere con oggetti che gli capitavano, come rifiuti e sacchi d’immondizia. Da questo particolare si può capire che non ha voglia di essere incastrato, almeno per il momento.
Quindi lo assocerei alla categoria dei “KILLER ORGANIZZATI“, quelli, in altre parole, che pianificano e studiano i loro crimini e poi colpiscono con accurata strategia, mentre gli altri si affidano al caso o al loro istinto malato. Quindi è necessario che si cominci a scartare una buona parte e si lavori solo con un certo tipo d’individui: mole abbastanza grande, di conseguenza, considerando anche il numero delle scarpe, quarantacinque, scarterei, quasi in tutta sicurezza, che si tratti di una donna.  Gli omicidi sono avvenuti in ore serali o notturne e in diverse città della nazione, quindi si può dedurre che sia un uomo con molta libertà. Soprattutto dal punto di vista lavorativo. Sceglierei solo limitate categorie: commesso viaggiatore, professionista, camionista.
Potrebbe vivere da solo, in un piccolo appartamento, ma in un gran condominio, per come tende a nascondere gli indizi difficilmente si lascerebbe identificare in una casa indipendente, avrebbe la fobia dei riflettori puntati addosso. Per lo stesso motivo ama gli occhiali scuri, e porta giacche e giubbotti, anche in periodi molto caldi: è un modo per provare sicurezza e sentirsi inosservato. Escluderei cappelli, provocherebbe l’effetto contrario a quello voluto in partenza. Abbigliamento casual, con età compresa tra i trenta e i quaranta, sicuramente di razza bianca considerando che è la maggioranza in questo paese. Probabilmente impedito sessualmente e con gravi problemi legati ad un’infanzia difficile soprattutto nei confronti della madre. Mi orienterei soprattutto sui divorziati, le donne sono le prime ad avvertire questi malori, quella metamorfosi, cioè, che portano il soggetto a trasformarsi in un animale. Riguardo ai problemi con la madre mi colpisce l’immaginario una donna prepotente ed autoritaria che amava ridicolizzare il figlio fino a farlo sentire impotente ed inutile. Non escluderei da parte della donna problemi con alcol, droga e prostituzione. La droga è una malattia che costa caro, da qualche parte devono pure uscire i soldi!
Il suo lavoro sembra più un compito di pulizia, di purificazione forse tendenzioso alla vendetta. Dobbiamo però scoprire anche quale è il possibile torto che ha subito, valutando naturalmente tutti gli indizi a nostra disposizione, anche se con tutta sincerità non sono molto soddisfacenti.  E’ un collezionista d’insetti, quindi può possedere un terrario e di conseguenza deve rifornirsi continuamente di tutti gli accessori per la manutenzione.
Riguardo al modus operandi, che non ho lasciato per ultimo per poca considerazione, ma perché va utilizzato come sintesi di tutta l’analisi, riassumo molto concisamente:
Agisce in modo veloce e selvaggio. Usa il pugnale, sempre lo stesso. I tagli e le lacerazioni della cute in questione, hanno dato prova sempre della stessa arma. Una morte veloce, senza violenza sessuale, sulle vittime non è stata ritrovata nessuna traccia di saliva, sperma, o sangue. Un lavoro pulito. Le immobilizza con un panno di lino imbevuto cloroformio, un taglio alla gola ed un colpo al basso ventre che non è mortale, poiché segue quello alla gola. Dalla gola è fuoriuscito più sangue e il liquido è stato rinvenuto anche tra i seni, quindi le vittime erano ancora in vita e in piedi quando hanno subito il taglio alla gola. Se fossero state al suolo, il sangue sarebbe stato trovato al loro capo. E’ da considerarsi il primo taglio alla gola, quello mortale. Infine firma, lasciando un bozzetto che ritrae l’insetto scolopendra>>.

Il capitano Marchesi, appena finito l’intervento del profiler americano, fece aprire la tenda; la luce forte della mattinata invase il viso cupo di Febbraio, non riuscendo ad alleggerirlo nei lineamenti contratti.





                                                                                                         


CAPITOLO VII


Uffici del Racis. 27 novembre 2003
Ore 9.32.
La visita del magistrato Confalonieri.




<<Il resto lo ritiene superfluo, improduttivo; di fatto alle vittime non è stata rilevata alcuna altra violenza fisica o di carattere sessuale: le lascia senza vita, ma non approfitta dei loro corpi oramai inermi, come se il suo unico intento fosse un’azione purificatrice, di pulizia. La morte fine a se stessa! Questo è il messaggio forte e chiaro che proviene dal suo comportamento omicida, analizzato dai migliori “profiler“ nazionali ed internazionali, come ha visto qualche minuto fa>>.
Il capitano Marchesi continuava a spiegare i fatti, mentre Febbraio ascoltava in silenzio ed immagazzinava quante più notizie possibili; il capitano sorseggiò un po’ d’acqua, poi riprese.
<<Ripeto: le immobilizzava drogandole, un taglio alla gola e poi uno finale al basso ventre che non è fatale se si considera il primo, quindi è da valutarsi come uno sfregio, un’azione punitiva appunto. Ora c’è, però, come la situazione non fosse già abbastanza complicata, un nuovo fatto ed è posteriore all’analisi del “profiler” Peter Freyes: il coltello non è più lo stesso. La Giacobini, l’ultima vittima non è stata aggredita con lo stesso coltello. Diverso, leggermente più piccolo e meno affilato, forse per questo motivo la Giacobini si è salvata>>.
<<Perché avrebbe dovuto cambiarlo? Forse abbiamo a che fare anche con un emulo?>> chiese Febbraio.
<<Potrebbe, ma abbiamo ipotizzato che, forse, nello scappare, lo avesse perso. In ogni modo non siamo riusciti a trovarlo, naturalmente. Altrimenti, sarebbe ora sotto i suoi occhi.
Ma torniamo al nostro discorso: le sceglie accuratamente identificandole con ricercate caratteristiche fisiche, di fatto tutte si somigliano in modo sconvolgente. Hanno i capelli neri, sono belle d’aspetto, leggermente in carne, ma non grasse. Non sono grasse. Ognuna di loro con una carriera, con una splendida famiglia e qualcuna con un potenziale scheletro nascosto nell’armadio, come le dicevo prima. Una seconda vita con seguiti sconvolgenti. Quest’ipotesi ci ha lasciato lavorare in pace, perché gli stessi familiari hanno voluto che la stampa rimanesse fuori della situazione, almeno quella nazionale. Ma chi è risultata pulita….capisce, i familiari non si sono fatti passare la mosca per il naso. Infatti non siamo riusciti a sfuggire alla caccia brutale della stampa che ci ha messo poco per tirare l’immagine del serial killer. Ed eccoci qui, con tutti i riflettori puntati addosso, da ogni parte d’Italia, da ogni mezzo di comunicazione>>.
Luigi fissava senza sosta il capitano, mentre spiegava la situazione, ed anche Paolo mostrava un’attenzione particolare alle argomentazioni. Gli altri seguivano di passo, come ascoltare per l’ennesima volta quella storia era un pegno da pagare per la loro incuria.
<<Quindi, mi permetta un’interruzione, questo è l’anello comune su cui avete lavorato per collegare i sette omicidi, ed infine l’aggressione? La prostituzione? Avete sequestrato le agendine, interrogate le persone, ed è venuto fuori, per qualcuna, l’agenzia d’escort, e tutte le grane connesse. Anche se non tutte… insomma, non avete trovato indizi scottanti per tutte le vittime>>.
<<Si, effettivamente il cerchio si è ristretto in questa direzione.  Ma come le ho detto prima, non tutte sono prostitute. Non creiamo confusione, purtroppo però il pensiero, anche se cerchi di deviarlo, va a finire sempre sullo stesso pallino. In virtù di questo abbiamo escluso che potesse essere un uomo all’interno dell’agenzia, perché non tutte le vittime erano iscritte, e poi quella è gente che vuole fare solo soldi. Tanti soldi. Difficilmente vedrei uno dell’agenzia a fare il serial killer. Comunque, sono tutti sotto indagini>>.
<<Secondo me, avete tralasciato la comune condizione fisica delle vittime: quasi tutte con la stessa età, il peso, il seno abbondante, i capelli neri. Ha la lista delle vittime?>> chiese Luigi fulmineo.
<<Certamente! Eccola!>>
<<Quindi lei dice che non sono tutte prostitute, ma lo sospetta? Oppure, una volta decedute, ha trovato tra le loro cose indizi che l’hanno portata su questa pista? Mi scusi, ma mi sono un poco perso per strada. La cosa è alquanto complicata>>.
Marchesi raccolse dalla stanza un respiro profondo, di quelli che impari per esigenza, quando cioè c’è bisogno di pazienza, in quelle situazioni dove rispondere guerra ad un atteggiamento di guerra è l’azione più devastante che una persona possa commettere.
<<Certo, agente Febbraio, lei è un uomo del campo di battaglia, quindi comprende che il mio è un semplice sunto. Capirà che le parlo d’anni d’indagini e non mi riferisco solo al tempo, ma anche all’intensità con cui sono state svolte le ricerche. Ora è normalissimo che qualcuna era iscritta a questa benedetta agenzia, altre avevano lasciato appunti in giro tra le loro cose. Nomi, appuntamenti. È stato rovistato in ogni direzione, in ogni angolo e le persone coinvolte vicine alle vittime hanno ceduto alle nostre pressioni. I fascicoli delle indagini si compongono di oltre cinque milioni di battute, qualcosa come quindici libri per capirci. Un mare di lavoro, di sudore, ma manca quel maledetto e mi passi il termine “fottutissimo”, ultimo elemento che avrebbe dovuto portarci al culo del bastardo. Quindi agenzia, qualcuna di mestiere, e altre forse, dico e ribadisco forse, per il semplice gusto di farlo. Insomma sesso. Se accanto ad ognuna di loro, però, non fosse stato ritrovato il bozzetto, sarebbero stati delitti separati l’uno dall’altro e magari qualche giurisdizione di competenza li avrebbe archiviati come accade con tanti omicidi. Quel bozzetto ci ha costretto a girare per tutta la penisola, incollando, assimilando per poi disunire le notizie non pertinenti. Un rebus. Un enigma, lo chiami come vuole, ma è il motivo di questa riunione avvenuta oggi. Come e perché loro? Perché un insieme d’otto donne in una nazione così grande. Ognuna di una città diversa. Insomma sparse per tutta la nazione. Allora ho pensato a quello che tentava di rimorchiarle e non ci riusciva. Un errore>>.
<<Okay. Ora è molto più chiaro, perché alla fine non ci si capisce una mazza. E questa della prostituzione comune potrebbe essere una conseguenza della troppa velocità della sua mente. Per quanto mi riguarda al momento, come punto d’unione, abbiamo solo la stessa condizione fisica. Il resto è aria fritta. Ho anche un altro terribile dubbio! Perché ho l’impressione che siamo troppo concentrati sulla città di Roma? Nonostante lei abbia ribadito il contrario, e che le aggressioni in tutta Italia ci raccontino cosa diversa>> chiese Febbraio.
<<Per il semplice fatto che l’agenzia d’escort è di Roma. Poi la Cortez, la penultima vittima è stata aggredita nella stazione regionale Roma-Viterbo. Ma attenzione, siamo coscienti che non significa niente! Le altre avevano residenza in tutte altre zone d’Italia e di conseguenza sono state ritrovate senza vita in tutto il territorio nazionale. Niente di più, qualche pulce nell’orecchio, ma non abbiamo nessuna convinzione che sia della città o della regione. Un casino, come le ho riferito fin dall’inizio. La vedo con un atteggiamento strano: ha già un’idea diversa dalle nostre considerazioni? Insomma, ha già rilevato un errore? Lei è famoso per le sue intuizioni, Febbraio>>.
<<Ho l’impressione che abbia l’orecchio troppo pieno di pulci. Questo può vivere dappertutto e da nessuna parte. Sono un investigatore, mica un mago che guarda dentro la palla di vetro: ho bisogno di più prove tangibili. Quindi ascolto, assimilo, ma non sono convinto di niente. A questo punto, nemmeno del suo fallimento. E’ un osso duro, potremmo trovarci di fronte ad un precedente, ad una mente fine che ha lavorato vagliando ogni particolare. Oppure, qualcuno che ha copiato i primi tre omicidi di un altro pazzo per continuare nella sua testa un disegno, un progetto. Diavolo potremmo dire niente e tutto. Si lavora, cercando la soluzione, sempre che si riesca a trovarla……….
Ma torniamo ai fatti. Naturalmente in quei cinque milioni di battute c’è anche la lista delle vittime, schematizzata secondo un ordine cronologico?>>
<<E’ naturale che ci sia!>>
<<Allora me la legga per favore, se l’ascolto riesco meglio a focalizzare dei particolari che potrebbero essermi utili in futuro. Leggendo mi perdo per strada. Per cortesia, legga>>.
<<Come vuole lei, Febbraio>>.
Marchesi rovistò qualche secondo, le mani dalle dita flessuose si muovevano decise tra i fogli rilegati dalle vari cartelline di un colore marrone riciclato. Poi cominciò a parlare, dopo aver strofinato varie volte il mento con una delle mani che acutamente liberava dal lavoro principale di ricerca.

TESAURO ADRIANA, morta il 11/03/2002. Ritrovata a Borgo San Lorenzo, Firenze. Nata a Firenze ed ivi residente, il 23-07-1966. Laureata in giurisprudenza lavorava per uno studio legale. Quel giorno aveva un appuntamento, era scritto tutto puntato sull’agendina.
 “A.N.” ore 9.00 per l’esattezza, ma non abbiamo capito il significato di questa sigla. Non è stato possibile identificare con chi. Quello che è certo che non era per lavoro. Allo studio dove esercitava non c’era un impegno che l’aveva costretta a stare fuori in quell’orario. I familiari hanno confermato che era partita molto presto quella mattina, verso le ore 6.00.
Alle 19.00 dello stesso giorno, invece, dalle rivelazioni dello studio, aveva un impegno di lavoro a Borgo San Lorenzo, con il titolare di una palestra del posto. Motivo, dopo aver ascoltato i dipendenti dello studio legale ed il titolare della struttura sportiva, un problema con un ragazzo in coma dopo che aveva battuto la testa nelle docce. Lei all’appuntamento non si è mai presentata secondo le indicazioni del proprietario, un certo Giovanni Paterno.  Lascia un figlio e marito.
TOMASCO CARLA, morta il 06/08/2002. Nata a Avigliana, Torino 23-09-1968. Ritrovata a Pianezza, sempre Torino, in un giardino pubblico lontano dalla sua macchina. Ricercatrice. Due figli. Viaggiava spesso e si era iscritta all’agenzia d’escort, la filiale d’Asti. Desiderava vedere le foto dei suoi pretendenti, secondo le indicazioni dell’agenzia. Quel giorno l’uomo che pagò per stare con lei, all’ora dell’omicidio aveva un alibi. Erano stati insieme verso le dieci del mattino, nell’ufficio di lui, in via Vespucci Amerigo n.45 a Torino. Il corpo è stato rinvenuto nella periferia della città,alle tre di notte del giorno 07-08-2002, con una temperatura del fegato di circa 35°, quindi si presume che sia deceduta alle ore 22.00 del 06-08-2002. L’uomo, un certo Silvio Benvenuto, era partito per Milano alle 13.00 dello stesso giorno. Abbiamo controllato naturalmente. Un alibi di ferro. Per non dire: “completa esclusione al fatto”.

CERONE ROSANNA, morta il 07/11/2002. Ritrovata a Pagani, in provincia di Salerno. Nata a Napoli. Chimico alimentario, lavorava per la Novamont.  Non era iscritta all’agenzia. Alle 13.00 del giorno del decesso chiamò casa per avvertire che avrebbe fatto tardi. Nella mattinata aveva un convegno presso il Circolo Sociale di Pagani, dove intervennero rappresentanti dell’università di Napoli, quella di Campobasso, dell’azienda Mediflor, dell’AO, e la vittima a rappresentare la Novamont. La discussione era improntata sulla caratterizzazione del pomodoro San Marzano. Lei era presente al convegno che si è inoltrato fino alle 12.30. Poi c’è stato il pranzo cui non ha partecipato.  Da quell’ora non hanno più vista. Dal telefonino abbiamo rilevato altre due telefonate, in entrata però, entrambe dal suo ufficio. E’ stata ritrovata alle 22.35, da un vigilantes del posto.
 
BACCARI ENRICA, morta il 04/01/2003. Residente a Ravenna, ritrovata a Brisighella in provincia di Ravenna. Agente di commercio. Sulla sua agendina non c’era appuntato niente per il viaggio nella piccola cittadina. Non era iscritta all’agenzia d’escort, a loro dire, non la conoscevano. Qui c’è oscurità completa più che con le altre vittime. Lascia un figlio e un marito. E’ stata ritrovata alle ore diciotto, molto in periferia.

GAUDIOSI CRISTINA, morta il 22/03/2003. Nata a Milano, ritrovata a Desio, in provincia di Milano. Nessuna telefonata importante, niente appuntato sull’agendina. Iscritta all’agenzia d’escort. Nessun appuntamento registrato per quella mattinata. S’intende, secondo le indicazioni dell’agenzia, che, dopo un primo incontro, ed un’eventuale simpatia, gli amanti si potevano incontrare anche senza mettere a conoscenza l’organizzazione. Logico e grottesco, perché questo allarga il campo d’indagine in modo sconvolgente. Divorziata nessun figlio. Qui si rompe l’anello di congiunzione della famiglia.

FORLENA MANUELA, morta il 08/07/2003. Ritrovata a Vittorio Veneto, Treviso. Nata nello stesso comune il 22-08-1970. Organizzatrice d’eventi. Nelle ore serali doveva incontrare il consiglio d’amministrazione dell’associazione “Mostra dei vini e delle grappe”. E’ stato confermato dai soci. L’appuntamento era alle 20.00, la vittima non si è mai presentata. Il corpo è stato ritrovato in un fossato semi-paludoso il giorno 28-07-2003, venti giorni dopo. L’entomologia forense ha stabilito che il cadavere non è stato mai spostato. Considerando lo stato di lavoro degli insetti, concentrati sulle ferite, le solite inflitte dal nostro serial killer, si è arrivati alla conclusione che il cadavere si trovava lì da venti giorni. Aveva, come tutte le altre, i documenti completi, le carte di credito e contanti. Il nostro amico non preleva niente, nemmeno un souvenir.

CORTEZ MILENA, morta il 03/09/2003. Ritrovata alla stazione regionale Roma-Viterbo. Nata a potenza il 01/09/1966. Architetto. Lavorava fino a tardi, abitava a Marino. Sappiamo che era poco ben voluta dal suo staff, in quanto mancava spesso nelle ore pomeridiane ed amava lavorare di sera. Un fatto d’ispirazioni diceva con gli operai. Sull’agenda c’erano molti numeri, ma quel giorno non aveva incontrato nessuno, anzi era rimasta sempre sul posto di lavoro perché in ritardo con la consegna. Insomma, ipotizziamo che non abbia avuto nessun incontro di sesso.
Anche lei iscritta all’agenzia d’escort. E’ morta nella serata all’interno del parcheggio della stazione. Ha lasciato le penne anche una guardia dipendente delle ferrovie, evidentemente testimone oculare del fattaccio.

E ultima della lista, speriamo che sia un dato definitivo, GIACOBINI STEFANIA, di cui già ho spiegato la situazione, aggredita il 15/11/2003 a Velletri. Riguardo alla sua vita extraconiugale, sappiamo poco e niente, ma stiamo indagando, con discrezione.

E questo è tutto. Speriamo>>.

Il Marchesi, dopo aver spiegato al meglio la situazione, tirò un respiro di liberazione e si concesse la sua tazza di caffé, probabilmente fredda, ma desiderata come l’acqua nel deserto per un tuareg.
<<La superstite è stata interrogata?>> chiese ancora Luigi.
<<E’ stata salvata dal pronto intervento; l’hanno tirata per i capelli, di conseguenza la sua dichiarazione è stata vaga e frammentaria, per il forte trauma subito……
Tutto si è svolto in un clima surreale, ancora in ospedale, per guadagnare tempo, ma non ha raccontato nulla di particolare importanza. Probabilmente si è spacciato per un cliente e poi ha fatto quello che doveva fare. Sono supposizioni, perché la donna ricorda poco o niente!>>   
Luigi passò con la mano l’orecchio, avanti e indietro, come se volesse raschiarlo o alleviarlo da un prurito di forte intensità, pareva un movimento di mille anni, primitivo. Un gesto consueto. E in quella giornata lo propose più di una volta.
<<E’ strano che in quest’ultima occasione fallisce, mi riferisco al caso Giacobini. C’è la forte possibilità che si tratti di un’emulazione, già, una forte possibilità>>.
<<In effetti, è parsa strana dal primo momento, voglio dire la situazione, perché prima di quel momento non abbiamo rilevato nessun insuccesso e in tutta franchezza, non riesco a spiegarmi come sia accaduto questo miracolo. Probabilmente la vittima è riuscita a ferirlo, anche se non sono state ritrovate tracce di sangue diverse dal gruppo della Giacobini. Il luminol ha dato esito negativo>>.
<<E’ tutto molto complicato, penso che sia un bel casino. Ci toccherà di nuovo interrogare la vittima in questione>> rispose ancora con aria pensierosa Luigi.
<<Ottima idea, agente Febbraio!>>
Era il colonnello Piovano accompagnato da un altro uomo. Apparve molto diverso dall’incontro notturno: ora era in divisa, mostrando in pieno tutta la sua autorità. Con lui c’era un’altra persona; portava una valigia di pelle tenuta per il manico dalla mano destra. Aveva più di cinquant’anni, una leggera barba bianca e degli occhiali piccoli che gli coprivano gli occhi solo nella parte inferiore, lasciando le folte ciglia bene in vista.
<<Salve, agente Febbraio, sono il magistrato Confalonieri, il colonnello mi ha riferito che sarebbe arrivato oggi, ed ecco tutti riuniti per porgerle il nostro benvenuto. Abbiamo lasciato qualche ora affinché voi tecnici poteste, discutere del caso. Bene ora che ha un’infarinatura generale vorrei parlare con lei della parte burocratica-legislativa. Che ne dice se scambiassimo qualche chiacchiera?>>
Il colonnello Piovano si fece spazio con il suo solito rigonfiamento addominale e sbrigativamente tenne a precisare alcuni punti.
<<Certo, certo! Però è meglio che questa stanza sia meno affollata per questi tipi di discorsi. Quindi, signori, se ci volte lasciare per qualche minuto da soli, vi saremmo davvero grati della gentilezza. Grazie! Lei, capitano Marchesi, naturalmente resti!>>
I ragazzi del Recis abbandonarono la stanza e si diressero nel corridoio in fila indiana, facendosi spazio tra gli altri appena arrivati che si trovavano ancora sulla porta.
La sala ora appariva immensa, ed il tavolo ovale sproporzionato per i quattro che erano rimasti in riunione.
Il magistrato depose la valigia su una sedia e n’occupò un’altra per sedersi, lo seguì il colonnello, mentre Marchesi aspettava che tutti fossero usciti per chiudere la porta alle loro spalle. Gonfalonieri continuò.
<<Allora, veniamo al dunque. Capisco benissimo che ci sono delle priorità, che voi investigatori ne stilate una lista da seguire. Diciamolo pure: una specie di codice che perseguitate alla lettera per arrivare ad un determinato fine. Bene, sappia che io lo rispetto, ma mi auguro che ci sia reciprocità, insomma che voi investigatori rispettiate anche quello del nostro ordinamento giuridico. Mi segue Febbraio?    Anche lei capitano Marchesi, intendiamoci. Voi siete sul campo ed io lo capisco benissimo, ma un vostro errore, di riflesso, va a finire sulla mia scrivania, e poi di conseguenza su un’altra e poi ancora su quella di un'altra. A catena si provoca un disastro. Certo oggi la situazione non è delle migliori, ma non vorrei che in virtù di questo si commettessero errori irreparabili. Ci siamo fino a questo punto?>>
<<Credo di si>> rispose Luigi.
<<Bene, ne sono convinto. Abbiamo sentito parlare molto bene di lei, ma la situazione è molto complicata, direi labile. Un agente di polizia che entra in un’operazione del Racis non è la cosa migliore, e di questo n’è a conoscenza anche il capitano Marchesi. Sarò franco con lei Febbraio: a me la cosa non va giù. E’ come firmare un atto di colpevolezza. Ma la posta è diventata altissima e noi ci giochiamo l’ultima carta, non come sostituzione al capitano Marchesi, non me ne voglia nessuno dei due, ma la cosa così andrebbe fuori natura. Dovete lavorare insieme, mi aspetto che lavoriate insieme e d’accordo. Abbiamo bisogno di risultati, per il bene dei cittadini e del nostro amor proprio. Voglio essere aggiornato su tutto, ogni passo, ogni nuovo sviluppo. Questo bastardo, mi passi il termine, mi ha privato della mia tranquillità. E’ ora che paghi. D’accordo?>>
<<Se lei vuole dei risultati, io devo condurre le indagini. Posso prometterle che ci sarà la massima cooperazione, ma una squadra di calcio con due allenatori… No, questo mi sembra fuori natura! Già, non avrei potuto trovare un esempio più ficcante. No, è improponibile. Il capitano Marchesi, ha il mio massimo rispetto e stima, anzi vorrei approfittare per congratularmi per l’ottimo lavoro che ho appena visionato. Tecnicamente perfetto, ma manca quel piccolo quanto insignificante tassello a rendere tutto, oltre che perfetto, anche funzionale. E’ per questo motivo che sono stato interpellato.  Vogliate comprendere le mie ragioni>>.
Il colonnello Piovani strinse la pancia al petto, il magistrato tirò gli occhiali alle pupille, e Marchesi pensava a quello che era costretto a subire. Poi diede uno sguardo al mobile di legno nell’angolo: c’era la sua fiaschetta in argento. Se n’avesse avuto possibilità, era il momento migliore, ma subitaneamente gli arrivò anche l’immagine della moglie e dei figli. Allora dimenticò la fiaschetta e rientrò con la testa nella stanza, anche perché il magistrato richiamò la sua attenzione.
<<Capitano, posso restare tranquillo? Niente guai negli spogliatoi?>>
<<Non si preoccupi magistrato, non c’è ne saranno. Lo garantisco io, colonnello dei carabinieri, Piovano Paolo>>.
Il povero Marchesi dovette restare in silenzio. La faccia del colonnello era più che eloquente e il suo intervento tempestivo raffreddò ogni eventuale intervento.
Il magistrato tirò la borsa di pelle nera a se, tenendo sempre nello sguardo il volto di Luigi Febbraio, che si era appoggiato sulla sedia e la faceva girare a destra e a sinistra, usufruendo dell’asse girevole.
<<Bene, questa chiacchierata è stata più che esauriente. Tra persone adulte c’è sempre un punto d’incontro. Ora passiamo al lavoro sul campo. Qual’è la prima mossa?>>
Luigi smise di girare e si appoggiò con i gomiti sul tavolo.
<<Un permesso per interrogare nuovamente la Giacobini. E’ l’unica pista che abbiamo che ancora respira. Poi io e il capitano Marchesi rivedremo le prove raccolte, comprese le relazioni dei dna dei corpi estranei rinvenuti. Una media di dieci diversi per ogni vittima; i cappotti invernali, come mi ha riferito il capitano, sono una vera calamita. Certo dal database non è risultato nessuno schedato, ma voglio darci un’occhiata. Poi esamineremo di nuovo il bozzetto che lascia il nostro serial killer, da dove viene, che tipo di carta è, se ha provveduto a fotocopiarlo da un libro speciale, introvabile, oppure da uno qualunque.
Insomma tutto daccapo, ma con una sostanziale base di partenza. Questa volta>>.
Il magistrato si alzò dalla sedia con armonia, differentemente fece il colonnello che per il peso ebbe qualche difficoltà, poi tesero la mano prima di scambiare le ultime parole. Il primo fu il magistrato.
<<Bene avrete quello che vi occorre. Vi auguro buon lavoro.
Lei viene con me colonnello?>>
<<Si la seguo, ho un appuntamento a palazzo Chigi>>.
Guardò i suoi due uomini.
<<Mi raccomando!>>
Lasciarono la stanza frettolosamente e le loro chiacchiere si sentivano anche dal corridoio.
Il Capitano, in ogni modo, aveva ancora qualcosa da dire, e rimasto solo con Febbraio continuò il discorso.
<<La questione non è conclusa, ma è molta più problematica. Diciamo che il nostro amico è andato un po’ oltre, di fatto si è dato molto da fare fino ad arrivare al nostro centro operativo e poi ha lanciato una sfida….>>
<<Una sfida?>>
<<Si, proprio cosi, Febbraio, una sfida! Ha giocato, lasciando messaggi strani e filastrocche d’ogni genere, forse indizi, oppure semplici giochi di parole, formulati per puro divertimento. Il fatto sta che nulla è servito, se non per il suo divertimento, perché il tutto non ci ha portato a niente>>.
 <<Legga pure, sono molto curioso. E’ archiviato negli indizi, naturalmente>>.
<<Ecco! Sono scritti con il computer, stampati con una stampante epson c42, su carta pigna, naturalmente entrambi i marchi sono molto comuni. La stampante è fuori commercio da tempo, è naturale che in tutta Italia siano stati venduti milioni d’esemplari. E’ come trovare un ago nel pagliaio. Leggo un esempio. 

SCOLOPENDRA
Sono il lenito respiro
che leggero e delicato
abbandona le spoglie

Tutto qui, ma molto eloquente, in pratica è la stessa cosa che fa il nostro insetto con le sue prede. Lentamente le punge e le abbandona al loro triste destino >>.
<<Non le divora?>> di nuovo Luigi.
<<No, o almeno non per soddisfare le sue esigenze di sopravvivenza.
Tutte quelle situazioni che rappresentano un rischio sono affrontate in questo modo: la morte. Poi ha lasciato vari messaggi, come se volessero essere degli aiuti, del tipo:

“ Tutte hanno abitato nella stessa casa”
“ Saranno il pasto dell’Altissima “
“Sarò sempre fedele alla mia Regina“.

Eccetera ed eccetera >>.

Luigi socchiuse leggermente gli occhi, sbuffò vistosamente e poi si diede due energici schiaffoni sulle ginocchia. La stanchezza cominciava a pesare.
<<Per il momento è tutto, ho ascoltato abbastanza. I particolari li studierò oggi pomeriggio in ufficio con tutto lo staff al completo. Domani mattina, di buon ora, voglio risentire la Giacobini! Faccia che i medici si adoperino perché riusciamo ad incontrarla in buone condizioni. Non vorrei arrivare fino all’ospedale S. Maria Goretti a Latina e trovarla sotto sedativi, visto il trauma che ha passato>>.
Marchesi fece un cenno con la testa poi capendo al volo gli diede l’indirizzo dell’albergo.
<<Alloggia all’Hotel Villa Morgagni, è ottimo si troverà benissimo. La faccio accompagnare da Paolo, sarà stanchissimo; è meglio che riposi qualche ora prima di tornare nel pomeriggio>>.
<<Si, grazie. Ho bisogno di riposo>>.






CAPITOLO VIII


Quartiere S. Rita, Roma-Italia.
5 novembre 2003.
Ore 17.55




Sapeva benissimo dove trovare la chiave, da tempo n’aveva parlato con lui e da tempo avevano deciso che, ogni volta che avesse sentito il bisogno, poteva rifugiarsi in casa senza alcun problema.
Suo padre beveva di brutto, e amava farlo soprattutto di sera, quando tornava a casa dopo quel maledetto lavoro in  cantiere. Era maledetto perché lo malediva di continuo, perché assicurava che si meritava di meglio, più fortuna in ogni cosa che faceva. Ma niente, non era così: riusciva appena a tirare avanti e a darsi una calmata per non spaccare tutto il mondo.
Questo gridava alla moglie e a suo figlio, che si conteneva per assicurare un futuro a loro due, ma intanto beveva come una spugna.
La donna, invece, per l’ora del rientro del marito, aveva già liberato il campo da ogni possibile traccia: le tracce di uomini sempre diversi di viso, ma tutti di somiglianza per il modo di fare da padrone, anche se non si trovavano in casa loro.
Il bambino comprendeva quell’atteggiamento, ma piccolo com’era capiva che non avrebbe potuto fare poco o niente, perchè quegli estranei si comportassero più rispettosamente.
Quel pomeriggio in particolare aveva perso il conto, forse potevano essere tre, quattro oppure una decina. Il telefonino, che la madre nascondeva all’arrivo del marito, squillava e dopo qualche minuto appariva un uomo, quasi sempre unto e fradicio di sudore. Riempiva la casa con quella puzza.
Poche parole, poi lei alzava la mano, gli accarezzava la faccia  e lo invitava nella stanza più piccola per restarci una ventina di minuti.
Tommaso sapeva che la carezza della madre era falsa, fredda perché riusciva a riconoscere la differenza. Con lui, lei era gentile, certo non sempre, ma il più delle volte esternava amore e allora le sue carezze erano calde, protettive, diverse da quelle che concedeva agli estranei.

Nella stanza si trattenevano una ventina di minuti, mai di più e Tommaso restava a guardare la televisione ad alta voce. Fu un ordine della madre, in passato fu molto chiara e precisa; doveva tenere il televisore alto con il volume e soprattutto non doveva mai entrare nella stanza, quando era occupata con un’altra persona.
Quello che il bambino non comprendeva era il perché lei avesse scelto la sua cameretta. Una volta gli rispose con gentilezza, ma sempre con molta autorità.
<<Tommasino, è più facile ripulirla e se tuo padre dovesse rientrare all’improvviso posso chiuderla immediatamente>>.
Quando si rivolgeva al figlio era debole e stanca, nel suo profondo cercava di rendergli comprensibile quel suo modo di vivere. Voleva che lui capisse e comprendesse che quella non era stata una sua scelta, ma una condizione dettata dall’esigenza della sopravvivenza. Era certa che il bimbo non capiva in quel momento, quando gli parlava, ma una volta grande con quelle parole nella memoria forse il dolore sarebbe stato meno cruento.
Avrebbe, forse compreso, che nessuno è perfetto, che non tutti hanno diritto ad una vita tranquilla, ad una casa, ad una famiglia.  In fondo il destino di Tommaso era stato il suo quando era bambina, forse anche peggiore se si vuole con sincerità.
Qualche volta il male s’identifica con una stirpe e l’accompagna per molte generazioni, rigenerandosi come un nido di scarafaggi nelle vicinanze di una fonte d’acqua. E lei aveva cercato in ogni modo di dimenticare, ma quel liquido caldo che la prima volta si trovò sul corpo le aveva bruciato la pelle come se fosse stato magma provenuto dalle viscere della terra.
Il nonno aveva il compito di tenerle compagnia il pomeriggio, quando suo padre e madre comprarono quel maledetto ristorante non lontano dalle mura del Vaticano.  Tutti i pomeriggi, mentre loro si annullarono completamente per realizzare il sogno della loro vita, il nonno, il padre di suo padre, restava con buona voglia a farle compagnia.
Non era stato sempre in casa con loro, soprattutto lei lo conosceva poco: lo aveva incontrato raramente, e fu chiamato in quell’occasione, dal figlio, perché la guardasse a vista, come persona di fiducia della famiglia.
<<Papà, sono Gianni! Pensavo, ora che sei in pensione perché non ti trasferisci da noi? Ho comprato un ristorante, vorrei che tu mi aiutassi con la bambina. Sai, il pomeriggio rimane sola in casa e non mi sento tranquillo. Di questi tempi…….>>
In pochi giorni la famiglia fu riunita e il male si riprodusse ad ogni occasione di comodo. Dei particolari non n’aveva mai parlato con nessuno ed i suoi genitori lo seppero perché una sera la dovettero ricoverare per una grave infezione vaginale, da quel momento la verità venne fuori, con essa il disagio e la negazione per una vita candida.
 
Tommaso riusciva a sopportare, a resistere, bastava alzare il volume e tutto passava in pochi secondi. Ma quando la luce scompariva, una paura vecchia gli saliva su per la schiena perché sapeva che sarebbe arrivato il padre, allora il volume del televisore poteva aiutarlo in ogni modo.
Le grida, gli insulti, le parolacce, poi il rumore acuto degli sputi che si scambiavano a vicenda, il padre e la madre, avevano suoni sottili, ma penetranti, tanto che niente avrebbe potuto stanarli.
Fortunatamente da qualche mese nella palazzina era arrivato Michele con il suo cane Caligola. Avevano legato velocemente, perché Michele era premuroso e disponibile, a differenza degli altri, e allora fu un’amicizia lampo di quelle che durano, di quelle che insegnano qualcosa.
Non fu un ostacolo la differenza d’età, perché molte volte si vive una condizione di vita che non rispecchia minimamente l’essere adulto o l’essere bambino.  Ci si trova come se guidati da un istinto primordiale, che è sepolto dentro di ognuno di noi, che ha l’unico scopo comune a tutti gli esseri viventi: la convivenza.
Il nuovo inquilino era stato gentile ed ospitale dal primo momento, lasciando le chiavi di casa in un posto conosciuto ad esntrambi. E Tommaso un poco alla volta cominciò a familiarizzare tra le camere del piccolo appartamento, un piano superiore a quello dei suoi genitori. Là, sopra, c’era solo la mansarda di Michele, sul pianerottolo non viveva nessuna altra famiglia. Di fronte alla porta, però, c’era un altro appartamento, o forse una semplice stanza, ma non poteva sapere più di tanto perché Tommaso la porta non l’aveva mai vista aperta; e questo gli piaceva, il fatto che potesse trovare pace nel piano superiore, il piano di Michele, in perfetta solitudine e tranquillità.
Molte volte non entrava nell’appartamento dell’amico, ma restava sul pianerottolo, giusto al centro tra le due porte e con la testa tra la ringhiera riusciva a spiare chiunque si trovasse nella botola delle scale, senza essere visto. Ascoltava le urla degli altri affittuari e provava sollievo perché scopriva che tutti litigavano, forse era una cosa comune tra gli adulti. Allora pensava ai suoi genitori e un leggero sorriso gli veniva sulle labbra, erano adulti e a modo loro si volevano bene. Certo doveva essere cosi: gli adulti si arrabbiano, litigano e magari si picchiano, ma poi quando restano da soli, senza gli occhi dei piccoli, fanno la pace e si amano.
Doveva essere un gran mondo quello degli adulti, pensava in quel piccolo, ma immenso pianerottolo.
Ora era nuovamente in quel luogo, al di sopra di tutto e di tutti. Aveva lasciato la madre, mentre parlava con l’ultimo cliente ed era scappato di sopra prima che arrivasse il padre.
Sapeva dove trovare la chiave, perché Michele la lasciava in un posto segreto, lì in quel piccolo buco nel muro che avevano coperto insieme con una figurina adesiva di Vieri, quando giocava ancora nella Juventus.
Fuori era quasi buio, l’inverno alle porte: le giornate in quel periodo si accorciano di parecchio, e chi ama l’estate prova un gran soffocamento in questo momento dell’anno. Principalmente i bambini che devono abbandonare il cortile per rientrare prestissimo a casa, prima che faccia notte.
In verità, per Tommaso non era un gran trauma: in cortile ci scendeva poco, anzi quasi mai. Perché gli altri bambini ridevano della sua famiglia, lui faceva finta di niente, ma li ascoltava, era il suo cuore che riusciva a decifrare e a captare quei fili di voce maligni, istigatori. Faceva finta di niente, ma provava dolore per quello che dicevano su sua madre, perché non risparmiavano nessun particolare. Era un’età la loro di confine, in cui i misteri del sesso sono svelati dalla fervida immaginazione dell’adolescenza, in tutte le posizioni e con tutti i gemiti libidinosi di rito.
E ogni volta che scendeva in quel maledetto cortile la litania aveva inizio.
<<Eccolo il Tommaso!>> poi si chiudevano in cerchio e il più carismatico continuava <<Ieri ho incontrato la madre sulla porta piegata come una cagna, mentre tirava su il tappeto; sono riuscito a vedere tra le gambe le mutande. Poi non ho resistito, ho abbassato i pantaloncini e ho cominciato a toccarmi. Avevo paura che arrivasse qualcuno, ma mi è passato tutto>>.
E gli altri a bocca aperta.
<<E lei cosa ti ha detto? Le è piaciuto?>>
<<Se le è piaciuto! Mi ha detto che c’ era il figlio in casa, “Tommaso  figlio di puttana“, quindi non poteva invitarmi, ma non sarebbe mancata l’occasione perché non voleva perdersi quel coso grosso che mi ritrovo tra le gambe…..>>
Lui cercava di isolarsi, ma tutto avveniva in fretta e in modo incontrollato. Bastava che uscisse dal portone d’ingresso e che tutti si chiudevano in cerchio, quando quel maledetto bisbiglio si levava per ogni angolo del giardino. Allora non restava che il piccolo e il pianerottolo, in alto, più in alto di qualsiasi cattiveria, più in alto di qualsiasi sorriso di disprezzo, più in alto della sua stessa esistenza dolorosa.
In quella strana sera, però, non desiderava entrare da solo e allora, perché in casa dell’amico non sentiva rumore, aspettò fuori. No, non aveva bisogno di un rifugio o di giocare con Caligola, ma spettava Michele per un poco di compagnia, per parlare d’alcune cose. Qualcosa in lui cominciava a muoversi in modo anomalo, inconsueto: desiderava chiarimenti. 
Ed era un desiderio incontrollabile, perché un cumulo di domande gli salivano per la gola e premeva per uscire fuori, in cerca di risposte, in cerca di sollievo. Quindi aspettava Michele.
Di solito a quell’ora rientrava dal lavoro, si tratteneva un poco a casa, forse qualche ora e poi ritornava in strada. Non vestiva di buon gusto, ma nemmeno con disattenzione. Indossava spesso jeans e magliette di stile americano, leggeri e comodi giubbetti in linea con le mode del momento, scarpe giovanili. Tommaso non avvertiva imbarazzo proprio per questo motivo, perché lui era giovanile, libero come un bambino con la sua fantasia. Quello che diceva, di quello che parlava, al piccolo piaceva perché erano discorsi di libertà, di mondi sconfinati. Amava gridare che una volta grandi si è liberi! Liberi di vivere la propria vita, di cadere e di rialzarsi senza confrontarsi con il giudizio di nessun’altra persona, senza doversi aspettare il rimprovero di una madre o di un padre. E ora Tommaso aveva voglia di chiedere e ascoltare le parole confortanti del suo nuovo amico, ma anche un desiderio irrefrenabile di chiedere perché la vita era così triste e cattiva.


CAPITOLO IX


28 novembre 2003
Ore 7.55
Viaggio per l’ospedale S. Maria Goretti. Latina.




Il mattino sembrava che fosse arrivato prima del dovuto e non era solo una chiara sensazione, ma una vera protesta dettata dal fisico, ancora stanco per lo strapazzo delle prime ore in città del giorno prima. Il pomeriggio precedente era trascorso, per Luigi Febbraio, come predestinato dal primo memento: tra le braccia di Morfeo. Poi verso le ore della sera un nuovo incontro con il capitano Marchesi e lo staff del Racis.
No, Luigi non si abbandonò alla noncuranza, se avesse avuto qualche pensiero non avrebbe mai chiuso occhio, la verità era che il Marchesi gli aveva fatto un’ottima impressione, il che gli dava sollievo e tranquillità. Bastava affidarsi ancora ai suoi dettagliati resoconti e il quadro della situazione sarebbe stato completo, delineato perfettamente. E perché non sfruttare il viaggio da Roma a Latina, quale occasione migliore per impiegare il tempo noioso di un tragitto autostradale?
<<Allora, il ciuccio ha la coda!>>
<<E’ un modo di dire delle vostre parti?>> chiese Marchesi, visibilmente divertito.
<<Dalle mie parti ci sono più modi di dire che fili d’erba. E’ un’abitudine che molti reputano sana, mi riferisco a fotografare intere situazioni con detti e frasi sempliciotte. In questo caso lo scioglilingua mi aiuta a riprendere il bandolo della matassa e nell’eventualità anche a rompere il ghiaccio>>.
Luigi aveva risposto dal sedile posteriore, in compagnia del copioso fascicolo che aveva sparso un poco qua e un poco là; anche se investigatore, gli dava tono vestire i panni dell’infiltrato, un modo per giocare a guardie e ladri. La passione che da piccolo aveva portato dietro come un giuramento.
Marchesi invece, occupava il sedile anteriore e, leggermente piegato su se stesso, parlava con agio, fino a che Luigi non gli aveva risposto con la solita antipatia. Allora gli prese d’istinto a reclamare. 
<<La gente del sud è abbastanza eccentrica, fuori dalla norma, ma calorosa: la conosco bene, sono stato di servizio per cinque anni in Molise >>.
<<Mi creda, questo è il solito modo per non dire quello che effettivamente si pensa del sud e della sua gente>>.
<<Non capisco casa voglia dire, Febbraio, ma intuisco dal tono che non è un approccio amichevole di prima mattina. Intuisco che darà vita al suo fare antipatico e poco convenzionale: lei ama valutare più le intenzioni che le azioni di chi gli sta di fronte, in virtù di questo giudica la persona e, a volte, non disdegna di biasimarla>>.
<<Bel concetto, questo però devia il nostro discorso dalla strada maestra; a lei non è piaciuta la sua permanenza al sud, di questo ho la piena convinzione, anche se mi racconta il contrario. Ma il fatto più rilevante è che a me non frega più di tanto! Sa il perché? Perché voglio sapere ancora notizie sul caso: per esempio sono molto curioso sull’arma che usa il killer per compiere gli omicidi. Quindi potremmo tralasciare il mio “fare poco convenzionale” e tornare al nostro discorso, prima d’incontrare la signora Giacobini? Sa, le cazzate di prima mattina mi mettono malumore>>.
Come il solito, chi si sente attaccato, in modo così diretto e chiaro, difficilmente riesce a ritrovare il filo del discorso con comprensibilità. 
<<Beh, non volevo minimamente creare una sorta di polemica, ma… intendevo dire che….>>
<<Lasci andare, Marchesi! Continui con argomenti più indicativi, mi parli dell’arma dei delitti!>>
L’autostrada correva veloce, forse anche più delle macchine che l’ attraversavano.
<<Riguardo all’arma,>> il Marchesi prese a raccontare con aria dimessa e poco simpatica <<il laboratorio ha ipotizzato un coltello non molto grande, naturalmente dalla lama ben affilata. Qualcosa di mortale se usato con esperienza, ma docile da portare in giro, anche nei periodi caldi dove gli indumenti utilizzati sono ridotti al minimo indispensabile…>>
<<Perché ha fornito questa spiegazione?>> interruppe come un cane ai rumori di uno sconosciuto, Luigi <<Mi pare che anche ieri abbia sottolineato questo particolare. Toh, non mi ricordo se l’abbia fatto o meno. In ogni modo continuiamo: perché è stato così chiaro riguardo al periodo estivo?>>
<<Perché ha ucciso sempre con la stessa tecnica, quindi è metodico e di conseguenza, dall’analisi del profiler, paranoico. Allora è logico pensare che non rinunci mai all’oggetto, nemmeno in situazioni di calma, quando cioè non è intenzionato ad uccidere. In sostanza il coltello gli dà sicurezza, è un’ancora, sacrale, alla maniera di una croce per un cattolico. Invoca il suo aiuto solo nei momenti del bisogno, quando sopraggiunge la paura ed il terrore dell’ignoto, ma è sempre appeso ai suoi fianchi, come una foglia ai rami di un albero!>>
Si fermò qualche secondo.
<<Febbraio, mi offre una sigaretta?>>
<<Come no! Si serva da solo, la prego>>.
Sembrò che la tensione di prima fosse scomparsa del tutto, improvvisamente, come una purificazione infantile. L’accese con molta cura, usando il fuoco necessario solo per la prima combustione senza sconvolgere con forza l’estremità. Una boccata, poi riprese.
<<Questo è tutto quello che abbiamo riguardo all’arma. Dove siamo più piazzati è la parte fisica, come le dicevamo anche ieri: una mole di buon peso, forse oltre i cento chili con relativa altezza importante, perché si deve immaginare anche un’ottima agilità per un soggetto del genere. Ci siamo arrivati rilevando le impronte lasciate sul posto dal penultimo suo omicidio, avvenuto a Roma, nella stazione ferroviaria distaccata della città, adibita soprattutto per lo scarico e carico merci. Naturalmente in un perimetro dove c’era terriccio e vicino ai cadaveri; avvenuti i rilevamenti, ci siamo affidati ad una deduzione d’istinto perché vi erano migliaia di tracce che si confondevano con quelle che abbiamo isolato. Purtroppo, oltre alla vittima designata, ha perso anche la vita, un addetto alla sicurezza delle Ferrovie, un ragazzo giovane, evidentemente sorpreso mentre s’interessava a movimenti strani avvenuti quella sera. In poche parole un fuori programma, un sacrificio dettato dalle circostanze. Mai prima di allora non era stato mai coinvolto un uomo. 
Un ostacolo evidente che avrebbe intralciato il lavoro in programma quella sera. Allora la soluzione più veloce e pratica: il coltello. In seguito, o forse prima, è difficile stabilirlo, è toccato alla vittima designata. La signora Cortez Milena, come le ho già riferito, è, speriamo, la penultima della lista>>.
Poi Luigi si lanciò su un’altra sponda senza preavviso, in un discorso, o meglio in una proposta, che poco s’intonava con quello che diceva Marchesi.
<<Quando tutto sarà finito, offrirò a lei e al suo scudiero una buona insalata di pomodorini dei Monti Lattari, come gesto di scuse per quello che ho detto prima >>.
Il Marchesi si girò leggermente con il collo e non fu capace di evitare che il fumo della sigaretta finisse diritto agli occhi di Luigi.
<<Scuse per cosa?>>
<<Per essere stato scorbutico sul sud e le solite cazzate d’orgoglio…>>
<<Tutto qua, un’insalata di pomodori. Ma scherza, io e il mio scudiero siamo abituati a molto meglio. Caviale. Prosecco, aragoste…>>
<<Pomodorini rossi, sul mio tavolo, nella mia cucina: dalle mie parti essere invitati in casa è sinonimo di considerazioni e fratellanza. Ma noto che se lo facessi con lei e il suo scudiero, sarebbe tutto sprecato>>.
Ora il Marchesi non aveva più fumo da cacciare dalla gola, forse era sceso tutto nello stomaco, insieme al caffé di qualche minuto prima.
<<Mi scusi, ma non avevo capito…. Andiamo…in fondo, lei gioca sporco! Un minuto prima mi tratta come un perfetto sconosciuto e poi all’improvviso ci tiene che io venga a casa e mi sieda al suo tavolo>>.
Si fermò e cercò di riprendere padronanza della situazione, o quantomeno di rimediare all’imbarazzante errore.
<<Se l’invito è ancora valido, sarei onorato di mangiare pomodori all’insalata a casa sua, magari potrei portare un buon vino e una caciotta di pecora delle mie parti. Che ne dice?>>
Luigi accennò un lieve e cedevole sorriso, di quelli che ti fanno intendere che, con buona volontà, si può mettere una pietra su tutto.
E fu tutto: la macchina riprese per Latina, mentre Luigi studiava, mentre Marchesi si rincuorava e pensava che tutto sommato potesse smettere anche di bere, mentre Paolo pensava a Lina in Calabria, la sua ragazza.
Ma quando si pensa che sia tutto, è anche il momento in cui si abbassa la guardia e quando questo succede è il modo migliore per incassare un pugno nello stomaco.

Ospedale S. Maria Goretti, Latina. Secondo piano. Stanza della signora Giacobini Stefania.
All’inizio della corsia c’era un giovane carabiniere, visibilmente agitato.
<<Capitano Marchesi. Con me c’è il tenente Menestrelli, e il capo delle indagini, l’agente Febbraio. Siamo del Racis di Roma, la scientifica, dobbiamo incontrare la signora Giacobini per un interrogatorio>>.
Il giovane carabiniere bisbigliò qualcosa con un filo di voce.
<<Cosa ha detto? Non ho capito>> gli gridò a distanza ravvicinata Marchesi.
<<Niente, signore. Scusi! La conduco subito dal Capitano Miselloni, è proprio nella stanza della signora!>>
<<E che ci fa questo capitano nella stanza della Giacobini. Non penso che qui a Latina facciate fare il piantone ad un capitano>>.
<<In effetti no, signore. Il Capitano Maselloni è presente per un motivo molto grave. La signora Giacobini è deceduta>>.

Il pianto era in ogni angolo della corsia dell’ospedale, non si poteva evitarlo in nessun modo e certamente non era comprensibile continuare con le mani schiacciate sulle orecchie. Come tanti aspetti di questo lavoro, bisognava farci il callo, era l’unico modo per sopravvivere e riuscire ad andare avanti. Forse è solo un proponimento, ma è giusto tentare per trovare l’ideale concentrazione, affinché si possano rilevare tutti i particolari. E molte volte, con tanto autocontrollo, quel pianto si riesce a seppellirlo in fondo alla mente, tra milioni d’altri rumori. Ma quando s’incontra quello disperato e instancabile di due bambini, i figli della Giacobini rifugiati in un’altra stanza tra le braccia del padre, allora anche l’esperienza navigata di Luigi e del Marchesi sembra vacillare come un castello di carte.
<<Poveri bambini,>> prese Paolo, in coda alla fila <<evidentemente saranno i figli. Diavolo, ma che cazzo è successo….. Che le sarà successo?>>
<<Purtroppo lei è morta e non ci possiamo fare niente. Diavolo, mi pare una maledizione, intorno a questo caso c’è morte in ogni angolo. Poveri bambini>>.
Il Marchesi aveva bisbigliato lungo il corridoio, mentre si guardava intorno, come se le pareti bianche e fredde potessero dargli un risposta diversa dalla realtà. Luigi era rimasto qualche metro più indietro e lanciava occhiate a destra e a sinistra. Il carabiniere fece intendere che erano arrivati alla meta. Indicò con la mano aperta la stanza e concesse spazio perché i tre uomini potessero entrare. Poi subito alle loro spalle si rivolse al suo ufficiale che era vicino al letto della Giacobini.
<<Capitano Muselloni,  devo presentare i signori….. >>
<<Maresciallo Tronco, le avevo riferito categoricamente di non far entrare nessuno, qualunque fosse stata la ragione, anche se fosse venuto il papa o il presidente della nazione..  e che parlo turco?>>
<<Mi perdoni se la interrompo, sono l’agente speciale Febbraio, questi e il capitano Marchesi e l’altra persona è Paolo Menestrelli. Si calmi, ma se non siamo noi autorizzati ad entrare non vedo chi altri potrebbe…. Questo caso è nostro. Quanto meno, la signora era coinvolta in un caso di competenza nazionale, più specificamente appartiene al R.A.C.I.S. di Roma. Cosa è successo?>>
<<E che è successo, la donna qui sul letto non respira più>>.
Luigi entrò nella stanza riponendo il distintivo in tasca, facendo capire che presentarsi era stato solo un atto d’usanza, ma in quel momento gli importava poco dell’apparenze.
<<Questo lo avevamo capito. Quello che lei non ha capito, invece, è che questa donna doveva essere guardata a vista, perché un test importante di un altrettanto caso. Ora se è deceduta lei doveva chiamare subito chi di competenza. Cioè noi. Ma dove siamo? Che modi sono questi, tutte queste persone nella stanza! Uscite immediatamente! Mi ascolti capitano Muselloni, lei è in un grosso guaio, il magistrato non sarà felice di questa prassi>>.
<<Un guaio? Ma di che diavolo parla? C’è stata una chiamata del piantone che secondo quello che hanno detto i medici la donna era morta. Che dovevo fare? Aspettare che arrivaste voi da Roma?>>
Luigi fissò l’uomo con uno sguardo talmente intenso che parve che dovesse seguire un’aggressione fisica. Marchesi gli toccò la spalla lievemente, e più di una volta.
Lo sguardo su di lei si fermò non poco. Il collo era avvolto da un vistoso collare bianco che ricordava le pene subite, come un marchio, come la firma di qualcuno che è passato e ha lasciato il suo spregevole odore per sempre. Si poteva poi immaginare l’altra ferita, quella all’addome, coperta dagli indumenti da stanza. Era una bella donna, c’era poco da dire, proprio una bella donna. Di quelle che ti convinci che non può essere di un solo uomo o quanto meno è il sospetto che ti passa alla mente ogni volta che ne assapori l’odore al suo passaggio. Di quelle che entra nelle fantasie delle “mezze seghe“ e non le abbandona nemmeno se gli fai infilare due dita nella presa della corrente. E allora puoi aspettarti benissimo che uno,  emarginato e allontanato di continuo dagli altri, prima o poi riversi tutta la sua violenza su una donna bella e irraggiungibile come la Giacobini. C’era il letto, qualche carabiniere, forse anche qualcuno di troppo, le macchine al suo capezzale oramai spente, e poi i medici di reparto. L’attenzione cadde su di loro e poi su un gran crocefisso proprio sopra il letto, al centro, che guardava e sembrava anche che volesse giudicare.
L’attenzione,dopo, si posò nuovamente sui medici: qualcosa si poteva tirare fuori, anzi si doveva tirare fuori per forza, perché in tutta franchezza, le cose si erano molto complicate e Luigi lo sapeva benissimo. L’unica persona che poteva fare un po’ di luce sull’identità del killer ora aveva lasciato tutti con un palmo di naso.
<<Scusate per l’entrata leggermente cow-boy, ma la notizia ci ha scosso non poco. Sono l’agente Febbraio, io ed i miei colleghi ci occupiamo del caso. Voi siete i responsabili del reparto? Come è morta precisamente?>> chiese Luigi come se all’improvviso si fosse tuffato dalla barca di Caronte per sfuggire alla morte.
Uno dei camici in bianco si fece avanti, il primario del reparto.
<<Sono Michele Mollaro, il primario della chirurgia d’urgenza. Purtroppo da quello che si vede dal primo impatto pensiamo che sia soffocamento. I sintomi sono quelli…gli occhi sbarrati. Insomma non era sotto sedativi, perché aspettavamo la vostra visita. Pensiamo che abbia visto tutto, la morte s’intende. Se fosse stata sotto sedativi almeno non avrebbe sofferto. Questa donna è stata davvero sfortunata>>.
<<Soffocamento?>>
<<Si, come le ho detto, da una prima analisi si direbbe proprio di sì. Poi un’autopsia….>>
<<Soffocamento?>> riprese Luigi con gli occhi sgraziati dalla sorpresa <<Soffocamento, ma io prenderei a testate il muro. Chi cazzo c’era a piantonare la stanza, Biancaneve e i sette nani? E dove sono andati? A fare una passeggiata nel bosco? Capitano Muselloni lei ha sentito quello che ho sentito io? La signora Giacobini è stata strangolata! A questo punto spero che sia una barzelletta perché la situazione si sta facendo molto complicata>>.
<<Eh che le devo dire….quello ha la moglie con le doglie, si è allontanato per una telefonata. Dice che qui il telefonino non aveva campo…che devo fare? Mica lo posso impiccare? Cioè dovrei…insomma, è un modo di dire….voglio dire che sono mortificato. Eh, agente Febbraio di questo particolare dovremmo parlare in privato…….>>
Oltre agli occhi sgraziati, il colore del viso gli venne di un rosso accesso, ma così acceso che Marchesi si preoccupò non poco e Paolo preferì uscire nel corridoio.
<<Calma Febbraio….>>
<<Chi è?>> aveva sentito ancora la mano sulla spalla.
<<Sono Marchesi, stia calmo. Capisco che questo è un fatto gravissimo, ma non si faccia venire un malore, purtroppo è successo…. Ora facciamo chiudere la stanza e chiamiamo di corsa tutto lo staff medico-scientifico da Roma>>.  
Luigi prese fiato, si toccò l’addome, e con un respiro profondo si rivolse nuovamente al Capitano dei carabinieri di Latina.
<<Mi scusi, mi sono fatto prendere troppo la mano; purtroppo lo stress di questa situazione non garantisce comportamenti civili. Questo però non mette polvere su un comportamento assurdo del piantone e di conseguenza di tutta la sua compagnia. Ora mi viene di chiederle di concedermi qualche minuto per dare un’occhiata in giro, solo con i miei uomini, abbiamo molta fretta perché per l’una dobbiamo incontrare il Colonnello Paolo Piovano. Capisce? Ma che dico? Ora salta tutto e dove andiamo? Marchesi ci conviene restare qui ed aspettare i primi rilevamenti, cioè quelli ufficiali. E’ un diavolo di casino, purtroppo non ci sono altri termini per definire questa situazione difficile ed imbarazzante. Il colonnello Piovano esige un rapporto su tutta la situazione, anche se non è ancora a conoscenza che la signora ha lasciato tutti spiazzati con la sua scomparsa prematura! Diavolo, mi sento male, sarà la pressione. Diavolo mi scoppia la testa. Ma tu guarda che deve succedere. Un piantone con la moglie incinta. Se lo racconti non ci crede nessuno. E poi quello che n’approfitta. Marchesi, lei che ne pensa? O ha fatto lui la telefonata al piantone, ma se era così doveva conoscerlo…già, doveva conoscerlo. Dio, non ci capisco niente: è un casino. Dovevo restare a casa. Uscite tutti per favore>>.
<<Si calmi, Febbraio, altrimenti un malore…. E’ naturale che dobbiamo restare qui; ora isoleremo la stanza. Qualche ora e tutto lo staff del R.A.C.I.S. sarà qui. Bene signori, lasciate la stanza con molta accortezza>>.
<<Ma quale malore d’Egitto, dobbiamo svolgere delle indagini complicatissime, siamo in alto mare. Analizziamo  tutto e poi ci succede che un principiante fa entrare il killer, qui in ospedale alle nove del mattino, ma che scherziamo. Gli abbiamo preparato anche la situazione ideale: nella stanza non c’è altro paziente. Giustamente. Abbiamo voluto l’isolamento.
Boh, questo approfitta di pochi minuti per farla fuori. Due sono le cose: o era qui, accampato da qualche tempo, oppure ha messo lui tutto in scena>>.
Tutti erano rabbrividiti dal quel modo di fare pazzoide contornato da gesticolazioni evidenti ed eclatanti. Marchesi si reggeva proprio di fronte a lui, poi con uno sguardo richiamò l’attenzione di Paolo, in privato. 
<<Chiama i ragazzi, lo staff al completo. Dobbiamo setacciare dappertutto la stanza. Non bisogna tralasciare niente, se abbiamo qualche speranza, è qui dentro. Forza. Io tengo a bada questo pazzoide, gli sono saltati i nervi; fai in fretta!>>
Paolo corse nel corridoio, afferrò il telefonino, e si mise subito alla ricerca dei suoi colleghi. Era addolorato ed eccitato allo stesso tempo: avrebbe chiamato gli altri perché era sul posto, e questo, anche se per un fatto fortuito, gli diede una gran sensazione di soddisfazione.
Tutti cominciavano a lasciare la stanza della Giacobini, i medici, i carabinieri ed il Capitano Muselloni per ultimo. Luigi fissava Marchesi, poi entrò il marito della donna con i due bambini che, con gli occhi addolorati, ma anche sorpresi, contemplavano il cadavere della madre, freddo su quel letto bianco.
<<Non credo che sia un bel spettacolo da mostrare a dei bambini>> replicò Marchesi all’uomo, alto, snello e di carnagione curata.
<<Mi scusi, ma desiderano dare l’ultimo saluto alla madre. Che tragedia, una famiglia tranquilla come la nostra. E che è una scena di un film, non è possibile. Ma perché un accanimento così feroce. Dio ci aiuti!>>
Marchesi dava un’occhiata all’uomo ed uno a Febbraio che come un cagnolino bagnato si trovava sotto il letto della deceduta e girava la testa in ogni angolo possibile. Il marito della Giacobini fu rapito dai movimenti frenetici ed incontrollati quando la curiosità fu talmente alta che non riuscì a trattenersi.
<<Ma che fa quel signore?>>
<<Indagini>> disse il Marchesi con un filo d’imbarazzo.
Poi preso da un impeto primitivo si rivolse d’istinto al collega come se volesse salvare le apparenze.
<<Febbraio, c’è il marito della povera signora Giacobini, ci sono anche i due bambini. Forse è meglio se li faccio accompagnare fuori, che ne dice? Ma cosa sta cercando?>>
<<Li faccia accomodare fuori; parlerò con il signore fra qualche minuto. E’ meglio che i bambini non assistano a questo terribile spettacolo. E poi non mi chieda cosa sto facendo! E’ naturale che cerco il bozzetto, se è lui, dovrebbe esserci, ma a quanto vedo non c’è. Continuo a cercare andate pure…andate pure. E che fai, stronzo, mi dimentichi il bozzetto? Mi mischi di nuovo tutte le carte, ma allora sei proprio un gran stronzo>>.



CAPITOLO X


Quartiere S. Rita Roma-Italia
L’arrivo di Michele.
5 novembre 2003. Ore 18.20.




Eccolo, doveva essere lui, riconosceva il passo veloce con cui affrontava la prima rampa di scale del palazzo; poi il portone d’entrata, che si chiudeva con forza.
Senza dubbio era Michele.
In pochi secondi, la testa fu visibile, Tommaso cominciò a respirare nuovamente in modo regolare e sereno: poi quando s’incontrarono con lo sguardo, un sorriso si accese sulla bocca ansimante d’aria dell’altro, perché aveva percorso le scale di corsa.
<<Oh, Oh, il mio piccolo amico con l’aria triste. Cosa c’è che ti turba?>>
<<In un solo secondo riesci a capire che sono triste? Sei proprio il mio fratello maggiore che non ho mai avuto!>>
<<“Fratello maggiore“?>> chiese stupito l’altro mentre rovistava tra le tasche in cerca delle sue chiavi.
Il piccolo Tommaso ebbe un momento d’esitazione che, in pochi attimi, fu subito soggiogato da una paura conosciuta.
<<Ti dispiace? Volevo dire che ti voglio bene come un fratello maggiore, nient’altro. Hai fatto la faccia come i miei genitori, quando sono stufi di me, quando vogliono che vado via dalle scatole>>.
Michele, alle parole del ragazzo, socchiuse gli occhi, come per concentrare lo sguardo sul buco della serratura, offuscata da una luce sempre più fioca, che riusciva a malapena a penetrare la finestra.   
<<Sai benissimo che non volevo dire questo e tanto meno penso una cosa del genere,>> aprì la porta, lasciò che il ragazzo entrasse per primo <<solo che mi infastidisco quando piangi come una femmina. Bisogna reagire, reagire, reagire!>>
Improvvisamente il tono divenne duro e freddo, poi una luce di fuoco si arrampicò per tutta la faccia. Tommaso indietreggiò qualche passo, cercando di non fare trasparire un leggero senso di disagio.
<<Che c’è?  Ti ho spaventato? Non aver paura, noi siamo buoni amici, anzi come hai detto prima “fratelli“. Tutto sommato, mi sembra una cazzata, ma mi piace; è gradevole come idea>>.
Il ragazzo a quelle nuove parole, ancora una volta, non reagì con un comportamento limpido, naturale, e in effetti l’amico, quella sera, aveva un atteggiamento insolito, certamente non docile e affabile come in passato.
Oramai erano entrati in casa, ma Tommaso restò molto vicino alla porta senza appropriarsi dell’appartamento come suo solito. Restava impettito come un tronco morto, tra la terra e l’aria e questo non sfuggì all’attenzione di Michele, che non disdegnò l’occasione per pizzicarlo nuovamente.
<<Oh, che ti sei imbambolato? Datti una mossa! E’ il momento che tu ti prendi quello che ti tocca in questo sporco mondo. Cosa credi che non abbia capito quanti tarli hai nel cervello? Sei bucato come un colabrodo, ti scende liquido dappertutto e di continuo. Povero sciocco>>.
Era improvviso, quell’atteggiamento. Poteva comprendere le grida del padre o quelle isteriche e fulminee della madre, ma in quella casa aveva trovato un rifugio di tranquillità. Ora qualcosa era cambiato e un’angoscia inattesa gli otturava la gola come un grosso morso di cibo che non voleva scendere fino allo stomaco. Qualche lacrima s’impadronì degli occhi senza poter fare nulla per impedirlo. Allora pensò che almeno avrebbe potuto evitare che colassero lungo le guance, voleva evitarlo ad ogni costo per non sembrare un bambino piagnucolone.
<<Che c’è, ti va di piangere? Allora piangi come una femminuccia! Fallo, perché nessuno te lo impedisce, soprattutto nessuno proverà compassione per le tue lacrime. Questo mondo è un fottersi continuo, l’uno con l’altro, senza risparmiare colpi >>.
Tommaso ora non riusciva a trattenersi e le lacrime vennero giù come se fossero l’acqua di una fontana.
<<Perché mi parli così? Cosa ti ho fatto?>>
<<Tu cosa vuoi da me? Credi che io possa far diventare il mondo più bello, più sano? Allora ti sbagli di grosso, perché è impossibile! Posso solo purificarlo, ma il mio compito è quasi giunto al termine, ora devo trovare un successore, un degno successore!>>
Il bambino continuava a piangere senza fermarsi, poi si aggrappò alla maniglia della porta e con forza cercò di aprirla, ma i suoi gesti confusi e ansiosi gli resero l’impresa un insuccesso. Non capiva quello che diceva l’altro, ma gli bastava quel tono indiavolato per comprendere che aria tirasse.
<<Vuoi uscire e scappare? Non c’è bisogno che ti agiti in questo modo, ti apro immediatamente, ma prima voglio che tu mi ascolti per l’ultima volta, perché non ti voglio più nella mia casa>>.
<<Si ti ascolto, basta che mi fai uscire, per favore!>>
Quell’uomo non era più Michele, ma un diavolo, un essere feroce che sputava fuoco dalla bocca e dagli occhi. No, non era più il suo caro amico e quella casa non era più il suo rifugio segreto dove poteva sentirsi al sicuro. Ora, il pericolo era in ogni dove, tra la sua famiglia, in cortile ed anche sul pianerottolo al piano superiore. Tutti erano suoi nemici e la voce di quel diavolo era come una frusta sulla sua schiena innocente. Anche Caligola si era svegliato dal suo torpore, cominciò ad abbagliare come un ossesso, con la bava che gli scendeva di lato del muso. Michele lo fissò diritto negli occhi, senza che il suo sguardo si disperdesse altrove e poi di corsa gli si avvicinò. Cominciò con una serie di calci sotto le vertebre del cane, con la punta delle scarpe.
<<Brutta bestia, ti ho ripetuto mille volte che quando parlo devi restare in silenzio. Vuoi che ti strozzi con le mie stesse mani? O vuoi fare la fine del pesce, morto avvelenato? Dimmi, allora?>>
Il bambino si sentiva come avvolto da una marea d’insetti, un rumore assordante che aumentava sempre più fino a diventare insopportabile; si diresse nuovamente verso la porta e, con tutte le sue forze, cercò di aprirla, ma la fretta, la paura, il tremolio delle mani e il pianto del cane lo avevano  paralizzato fino all’ immobilità.
<<Fermati! Ti ho detto che devi ascoltarmi per qualche minuto, poi potrai andare per sempre!>>
<<Fai in fretta perché voglio andare via. Non salirò mai più da te, sei cattivo, hai picchiato Caligola e ucciso il pesce, non è vero che è morto da sé. Lo hai ucciso tu, sei un mostro>>.
Il bambino mischiava le parole al pianto in modo irrefrenabile e a quel punto lui si rese conto che era conveniente che lo calmasse, prima che qualcuno si sarebbe insospettito per tutto quel chiasso.
<<Basta, Tommaso, lo faccio per il suo bene, perché se lo sentono abbaiare lo dovrò abbandonare sotto qualche ponte e allora morirebbe di fame. Poi il povero pesciolino era gravemente malato, non poteva più ingoiare cibo, sarebbe stata una vita di sofferenza. Capisci?>>
Tommaso si asciugò le lacrime e pensò che se avesse ascoltato con calma quello che diceva, poi sarebbe uscito senza problemi: funzionava anche con suo padre quando si toglieva la cinghia per punirlo. Se lo assecondava riusciva ad evitare le botte.
<<Dimmi quello che mi devi dire, perché si è fatto tardi e devo rientrare prima che la mamma si accorga della mia assenza>>.
L’altro prese a ridere di gusto con un senso malizioso, poi si sedette ed invitò con la mano il bambino affinché facesse anche lui la stessa cosa. Ma gli argomenti non si addolcirono minimamente.
<<Tua madre che si preoccupa per te? Questa è bella!>>
<<Mia madre mi vuole bene!>>
<<E allora perché fa la puttana e si porta tutti quei porci in casa?>>
Il bambino stava per entrare in crisi nuovamente, ma poi si strinse le mani tra le gambe e cercò di farsi coraggio perché voleva uscire al più presto, per tornare giù tra le braccia della madre.
<<Non lo fa per cattiveria, è malata. Ora non ricordo come si chiama la malattia, ma è malata…..E’ tanto malata….>>
<<Malata? E’ la stessa storiella che mi raccontava anche mia madre. Quella si che era una gran puttana, riusciva a guadagnare un sacco di soldi; mi ricordo che ogni occasione era buona per accalappiare uomini, ci stava con tutti, anche con il mio dentista. Guarda!>> aprì la bocca stringendo i denti e con il dito indicò una dentatura bianca e allineata <<Visto che denti, quello mi dava due appuntamenti a settimana; dieci minuti li concedeva ai miei denti e il resto delle attenzioni erano tutte per lei. Ricordo, ancora, come ansimavano nella stanza accanto al laboratorio, mentre io restavo con i fumetti in sala d’attesa. Sempre di sera tardi, verso le dieci. Hai mai sentito un dentista che lavora fino a quella ora? Il mio lo faceva con grande abnegazione, un vero santo……. Una volta ho sbirciato e sai cosa ho visto? Lo immagini, vero?>>
<<Ti prego, stai zitto, mia madre non è così! E’ malata!>> stringeva forte le mani, ancora, tra le ginocchia per farsi sempre più coraggio.
<<L’ho visto, mentre la teneva ferma sulla scrivania, lei coricata, e lui su di lei. E sai una cosa? Ho provato una rabbia incredibile, inumana, perché mi sembrava che lui approfittasse di lei, invece col tempo ho capito che le piaceva portarmi dal dentista due volte a settimana. Una vera libidine. Da allora, ho odiato tutte le mamme scellerate e le ho punite, con il massimo della pena>>.
<<Ma cosa stai dicendo? Io non capisco, sono solo un bambino! Non so di cosa stai parlando?>>
<<Si che lo sai, tutti noi, che abbiamo lo stesso destino, la stessa madre, sappiamo. Sappiamo di essere maledetti dalla nascita. Maledetti per sempre, per tutta la vita. Tutti ci ridono dietro e tutti vorrebbero nostra madre nel loro letto. A scuola è un contino fruscio di voci e di sospiri, quando vengono a casa per i compiti o per giocare, la spiano, la seguono con lo sguardo la memorizzano e poi, a turno, corrono nel bagno per masturbarsi. Li odio, li ucciderei tutti…..>>
<<Ma cosa dici? Tu non vai più a scuola!>>
Tommaso non comprendeva a pieno la situazione, e non riusciva a quietare il tono di voce che per l’altro appariva irritante e distante.     
<<Stupido! Ti racconto, la mia infanzia! Mi prendi per pazzo, so benissimo che non frequento più quella cazzo di scuola. Sei uguale a tutti gli altri, ti prendi gioco di me. Ma cambierai, io ti cambierò. Io sarò la terra e tu il nuovo seme, da dove continuerà tutto; fermeranno me, ma non il mio disegno>>.
Le lacrime non smettevano di uscire dagli occhi di Tommaso, nonostante lo volesse con tutte le sue forze. Non era solo paura, ma rabbia, confusione, tutto insieme come non aveva provato mai. Voleva scappare, ma aveva la certezza di aver capito che a tempo debito lui lo avrebbe lasciato andare via, allora continuò ad assecondarlo, ascoltando quei discorsi strambi per le sue piccole orecchie.
<<Io ho sempre fatto quello che mi dicevi!>>
<<Non assecondarmi, piccolo idiota! Ascoltami, poi col tempo prenderai le tue decisioni. Io non costringo nessuno a seguire il mio disegno, chi mi viene dietro è perché si sente convinto, partecipe. Ora lasciami finire la storia della mia infanzia, poi sarai libero di toglierti dai piedi, fratello!>>
Si alzò, con le spalle al bambino, si diresse verso il tavolo della piccola cucina dove, da qualche parte, aveva lasciato un pacchetto di sigarette.
A Tommaso sembrò un buon momento, anche per annullare il piano che aveva formulato pochi secondi prima e scappare a gambe levate. Fece il tentativo di alzarsi, ma un attimo d’esitazione, ed eccolo nuovamente seduto di fronte a lui con la sigaretta che  lanciava  fumo al soffitto.
<<Ora ascoltami attentamente,>> prese a dire con un tono più dimesso e mansueto <<quello che sto per rilevarti è un segreto di cui mai nessuno  è venuto a conoscenza, qualcosa che mi porto dentro da una vita>>.
Si tirò indietro, mentre Tommaso, ancora tremante, si strofinò per l‘ennesima volta gli occhi, che erano stati presi da forti chiazze di sangue.
<<Uno di quei bastardi, un vecchio bavoso, un pomeriggio bussò alla mia porta, in uno di quei rari momenti in cui mia madre non era in casa. Non ricordo per quale motivo uscì, evidentemente per un lavoro a domicilio. Quello che è importante per la nostra storia, è che quel porco non volle tornare a casa a mani vuote; diceva che aveva chiamato e parlato con lei per un appuntamento nel pomeriggio, ma in quel momento non c’ era.
Lei non c’era nemmeno per starmi vicino: strana la vita, quando cerchi qualcuno, che ti ami e ti protegga, non lo trovi mai! Scusami, stavo dicendo? Ah ricordo, parlavo di quel vecchio porco.
Esigeva qualcosa che io non comprendevo, come un risarcimento perché non c’era mia madre, ed io ingenuo non capivo. Ma non si fece attendere molto, perché si spiegò chiaramente con i fatti: con le sue sporche e ruvide mani di porco fece a me quello che avrebbe fatto con mia madre, solo che io ero un povero bambino. Un innocente bambino…..>>
Ora Tommaso aveva notato che anche i suoi occhi erano diventati lucidi e pure se non aveva capito a pieno il senso di quelle parole, comprese, però, che quel momento fu molto doloroso e tragico per Michele. Allora dal suo cuore tenero uscirono delle parole, incomplete ma calde.
<< Mi dispiace…ma …non so cosa dire…>>
<< Tu non devi dire niente, ma ascoltare e capire! Un giorno il male che è successo a me accadrà anche a te. Sarà tutta colpa di questo sporco mondo, non tua, non sarà assolutamente colpa tua! Non dovrai vergognarti, non dovrai nasconderti, ma solo vendicarti e punire chi ti ha fatto tanto male, senza curarsi dei tuoi sentimenti!>>
<<A me no, non succederà niente, mia madre non mi lascerà solo….>> il bambino non credeva a quelle parole e non riusciva nemmeno a fingere il contrario; l’amore e la fiducia riposte nella madre erano troppo grandi.  
A quella risposta di Tommaso, lui aveva nuovamente ripreso il lucido diabolico negli occhi di pochi minuti prima e come se non avesse avuto più interesse a tranquillizzare il bambino, riprese a sputare fuoco con violenza.
<<Si, ti lascerà da solo, permetterà a quei porci di abusare di te ogni volta che vorranno e allora dovrai difenderti….>>
<<Ora basta!>> il piccolo era arrivato al limite della sopportazione e il pianto diventò incontenibile <<Se non mi lasci uscire griderò come un pazzo…>>
<<Aspetta solo un attimo, fammi finire: da te voglio solo una promessa, un giuramento in nome della nostra amicizia>>.
<<Noi non siamo mai stati amici e…>>
<<Se non giuri non ti lascio andare e ti sgozzo sul mio pavimento>> gli aveva messo la mano sulla bocca e lo minacciava con il suo coltello da lavoro.
<<Giura! Fai un cenno con la testa che eseguirai quello che ti dirò a tempo giusto, quando sarai pronto. Giura!>>
Il bambino fece un cenno con la testa, annuì prima che gli mancassero i sensi.
<<Okay; ora mi piaci, ma non ti libererò la bocca, non mi fido>>.
Ripose il coltello e si concesse un respiro d’aria profondo.
<<Dopo che il porco verrà da te, perché il porco verrà, voglio che tu faccia di tutto per vendicarti, per purificare questo sporco mondo. Non devi provare vergogna perché non sarà colpa tua. No, che non sarà colpa tua. Non è mai colpa degli innocenti. Ora ti lascio andare. E’ meglio che tu ritorni a casa>>.
Tommaso si rilassò, tutto il corpo gli divenne molle e quando la sua mano finalmente gli lasciò libere le labbra, avvertì quel sollievo finale, purificatore che lo tranquillizzò del tutto. Fu una consolazione e felicità insieme perché in fondo era convinto che Michele non gli avrebbe fatto del male.
<<Ora vado, mamma mi aspetta>>.
Con la mano piccola e ancora inzuppata di sudore strinse il pomello della porta con decisione, diede un ultimo sguardo all’uomo con il capo chino che fissava qualcosa d’astratto sul pavimento, e poi si lanciò definitivamente per le scale.
Michele lo accompagnò con un bisbiglio impercettibile, un filo di voce che si confondeva tra pensiero e parole pronunciate effettivamente.
<<Non avere vergogna, perché non sarà colpa tua, come non è stata colpa mia. Non è mai colpa degli innocenti. E ricordati: dopo che il male verrà da te, perché il male verrà, voglio che tu vada nel parco in Via Carducci, precisamente nelle vicinanze della prima panchina sulla destra. Li, sotto la panchina, ci sarà una scatola che io ti lascerò per aiutarti, perché sarò l’unico che ti potrà aiutare dopo che sarà accaduto il fatto. All’interno troverai una mia lettera, sarà la  guida per la tua vita futura.
Tu farai tutto quello che ti dirò e proseguirai con il mio disegno. Nessuno potrà fermarci.  Giura che ci andrai. Giuramelo!>>.
Il bambino scappò senza voltarsi, tirandosi dietro la paura e la sfiducia che solo questo mondo poteva partorire.







CAPITOLO XI


28 novembre 2003. Ore 12.45.
Uffici del Racis. Roma.




Il colonnello Piovano girava intorno alla stanza e lungo le pareti, aveva percorso oltre un chilometro. Metteva in agitazione tutti. Marchesi era rientrato nel suo ufficio con ansia, Luigi giocava con le sigarette e Paolo raccoglieva la tensione di tutti e la immagazzinava dentro lo stomaco. Aspettavano i risultati degli esami. Avevano trasferito il corpo della vittima nella capitale, mentre una squadra era rimasta nella stanza dell’ospedale per raccogliere quanti più indizi possibili. Una ricerca affannosa e dispendiosa che certamente non si sarebbe risolta in poche ore.
Piovano, oramai, aveva consumato le scarpe. Forse anche i calzini, e in più ripeteva sempre la stessa cosa da oltre un’ora.
<<Ma com’è possibile che un piantone si allontani dal posto assegnatogli, mi pare impossibile. E’ la prima cosa che t’insegnano o mi sbaglio. Ditemi voi, non è così? E poi questo fantomatico killer che gli faceva da coda? Cioè, ha approfittato di un minuto, ma che dico, sarà stato un secondo e l’ha strangola, perché dai primi rilevamenti si capisce che è stata strangolata. Questo è compito della scientifica e aspettiamo pazientemente i risultati definitivi, ma lei, Febbraio, che mi dice? M’allievi questa pena per favore! Come ha fatto ad approfittare di un secondo di distrazione. Resta il fatto che al piantone gli caverò gli occhi, è finita per lui, perché l’opinione pubblica se ne frega se è stato meno di un attimo. Ma detto tra noi, in famiglia, questo maledetto dove era nascosto? Dietro l’uscio della porta? E poi c’era pure qualche familiare… No, proprio non me ne faccio una ragione. Mi dica qualcosa Febbraio!>>
<<Già, la notizia è stupefacente: ho appena letto che forse faranno pagare il ticket al pronto soccorso! Ora dico io, chi ci va di mezzo? Sempre la povera gente! Ma porca miseria, uno quando parte da casa, con un dolore deve capire se è afflitto da un male grave, oppure da una sciocchezza. Insomma, hanno voluto punire gli ansiosi, ma finiremo tutti nel calderone. Ti viene un dolore al petto e devi capire se è ansia o meno. Io proprio non me ne faccio una ragione. Mi seguite?>>
Piovano aveva interretto la sua camminata frenetica, Marchesi con gli occhi fuori delle orbite si rintanò dentro le pagine di un fascicolo sulla scrivania, gli parve un gesto funzionale per uscire dall’imbarazzo e Paolo sentì lo stomaco dentro la gola. Evidentemente i due si aspettavano una reazione furiosa del colonnello dopo quelle esternazioni non pertinenti, anzi completamente lontane dalla discussione e forse pure dalla realtà.
<<Mi scusi Febbraio, le chiedo delle impressioni sull’accaduto e lei mi parla di pronto soccorso? Non la capisco, voglio sperare che questo sia un metodo per pensare, del tipo “uno scioglilingua” per l’attore prima di entrare in scena. Altrimenti lei mette a dura prova la mia pazienza. Hanno parlato molto bene di lei, ma rimango sbigottito da una risposta del genere. Io..io le ho chiesto cosa ne pensa di questa maledetta situazione e non di politica o  sanità!>>
<<Non si arrabbi colonnello, non si arrabbi. A questo mondo tutto è collegato come una catena. Io devo pensare…e di solito penso. Scopro misteri, indizi… faccio luce, insomma; ma quando ci sono altre notizie esterne a distrarmi, bene, allora la cosa diventa più complicata.
Ora io le dico che il dolore al petto non può essere causato solo dall’infarto o dai principi d’infarto. Mi segue?>>
<<No, e l’avverto che mi sto per arrabbiare sul serio. Oserei affermare che comincio a diventare offensivo!>>
<<Marchesi lei mi segue?>> Luigi sembrava che volesse rincarare la dose.
<<Veramente no, mi dispiace Febbraio>>.
<<Va bene, vorrà dire che sarò più chiaro: con questa proposta hanno voluto evidenziare che molti pazzi in testa, in perfetta salute, affollano le sale del pronto soccorso con dei fantomatici dolori al petto. “Dottore, ho una pressione qui sotto la gola e non riesco a respirare”
Elettrocardiogramma negativo, prova degli enzimi, negativa! Uno, due, tre, cinque, otto, dieci, venti, ogni  giorno.
Allora che si fa per fermare questo fiume d’ansiosi? Una tassa! Chiaro! Se risulta tutto negativo, venticinque euro: paghi!
Fino a questo momento tutto tranquillo, regolare diciamo! Ma che succederebbe, se ci fosse un’altra malattia che provoca gli stessi sintomi di un infarto? Per ipotesi, un’altra malattia che si presenta con le stesse caratteristiche, ma non è letale come un infarto.  Uno stato civile non deve salvaguardare la massa, ma l’individuo e poi di conseguenza ne trarrà beneficio tutta la comunità. Ergo, questa legge è una cazzata! Un dottore si definisce tale perché il fine della sua opera porti, spesso, ad una conclusione felice. Se un dottore del pronto soccorso, alla fine della giornata, tirando le somme del suo lavoro, stabilisce che i malati gravi, passati sotto mano, sono stati meno di quelli lievi, deve dedurre un successo e non una perdita di tempo. Altrimenti saltano tutti parametri del buon e sano vivere comune. Quindi torniamo al punto della nostra discussione. Il male possiede un campanello d’allarme: mai trascurare il dolore. Quindi un dolore è un campanello d’allarme! Capite?>>
<<No!>> disse Piovano.
<<No!>> disse Marchesi.
<<No!>> disse Paolo.
<<Stavamo sostenendo che non solo l’infarto poteva causare dolore al petto. Per esempio conosco un’altra malattia: la pirosi retro-sternale.  Dovrebbe chiamarsi così….
Dolore al petto, alla mandibola, al collo; diavolo, ditemi voi se non è la stessa cosa del letale infarto. Però non è l’infarto. Quindi c’è una percentuale di persone che si reca al pronto soccorso che non è ansiosa o ipocondriaca, ma soffre davvero di un dolore. Però quando l’elettrocardiogramma sarà negativo e così pure gli enzimi, il dottore dall’alto del suo camice bianco esclamerà: “Lei è una persona ansiosa”. Mentre quello aveva un dolore vero, e i parenti poi che lo hanno soccorso: “Diavolo ci ha fatto perdere mezza giornata per niente, senza considerare la brutta figura con il dottore”.
Conclusione: nel caso della Giacobini, metaforicamente parlando, illustrerei la situazione come pirosi retro-sternale e non come infarto. I sintomi sono gli stessi, ma gli effetti molto diversi. Adesso è chiaro?>>
Il silenzio era d’obbligo, un silenzio che con violenza s’era abbattuto nella stanza, perchè nessuno aveva qualcosa da dire. In effetti, la situazione era rientrata nelle righe, soprattutto, quando il colonnello aveva udito il cognome della Giacobini. Ora se il colonnello era contento, o almeno sereno, tutti di conseguenza, si accodavano. Luigi l’aveva presa un po’ per le lunghe, forse troppo, ed era certo che il gran capo aveva compreso ben poco del suo discorso. Ma il graduato non si preoccupava di capire. Gli bastava occuparsi delle relazioni con i potenti e con la stampa.
<<Bene, mi fa piacere che lei ha una teoria, sono molto più tranquillo….certo, è ancora complicata, ma sono fiducioso che la porterà alla soluzione del caso. Quindi…>>
<<Quindi bisogna lavorare sul legame delle vittime e in altre parole sul modello fisico, probabilmente è su questa base che le sceglie, oppure sul tipo di lavoro. Per quanto mi riguarda ha potuto seguire la Giacobini, si è fermato nel corridoio nelle ore delle visite, ha studiato bene la situazione e poi si è agguantato sulla vittima in pochi secondi. Chi ti chiede niente in un ospedale, c’è un giro di persone da paura, e lui non è il tipo di lasciare il lavoro incompiuto. Il figlio della Scolopendra non lascia un lavoro incompiuto. No,  proprio non è il tipo. Si siede nel corridoio, legge il giornale, magari chiede notizie di qualche malato e tutti lo scambiano per un parente o un amico di una dei degenti, poi al momento opportuno zac, le mette due mani al collo. Ci vuole più a dirlo che a farlo.
In più gli abbiamo semplificato la vita lasciandola da sola nella stanza. Certo non aveva una compagna di degenza, perché era sotto scorta. Non dimentichiamoci: un test di primaria importanza di un caso che tiene tutti sul filo del rasoio da  anni>>.
Piovano si gonfiò come un carciofo di Pasqua. Arido con l’alito, pronunciò parole secche e prive di cortesia, in pochi momenti dimenticò le sensazioni di serenità, che qualche minuto prima l’avevano sollevato dal nervosismo.
<<E allora il discorso di prima che ci azzecca? Mi era sembrato che lei avesse rilevato qualcosa di diverso dalla via maestra, pensavo ad un’emulazione. Cioè quel discorso sull’infarto e la pirosi…come si chiama….la pirosi…..>> 
<<La pirosi retro-sternale>> gli rispose Luigi con sufficienza.
<<Ecco quella intendevo, allora cosa mi dice? Ho capito male?>>
<<In effetti il discorso è complicato ed io non parlavo di un’emulazione con certezza, ma sono sicuro di un cambiamento del suo modo di operare, cioè se capita l’occasione, è capace di modificare il suo modus operandi. Fa quello che le circostanze richiedono. Si è appostato nell’ospedale ed ha ucciso la Giacobini, alla prima occasione>>.
Un’entrata improvvisa ed impetuosa interruppe la discussione; il colonnello si voltò di scatto nella direzione della porta, Marchesi abbandonò le carte del fascicolo e diresse lo sguardo nella direzione della voce.
<< E’ successo un fatto gravissimo….spaventoso!>> 
Era un dottore della scientifica del piano inferiore. Aveva un respiro pesante, forse per la corsa, aggravata dal peso dell’appariscente oggetto che trasportava con l’aiuto di una gabbia di metallo.
Riprese fiato, aveva l’ansia di comunicare qualcosa; glielo si leggeva in faccia. Ancora un attimo di pausa e poi rilevò tutto.
<<E’ un pacco: due buste di plastica con altrettanti capezzoli e il bozzetto della scolopendra. Tengo tutto in questa gabbia per non inquinarla con altre impronte o macchie>>.
<<Due capezzoli, dottor Canetta?>> chiese funesto il Colonnello.
<<Signore, da una prima analisi visiva quelli di una donna. Oh Santo Iddio è una cosa terribile.  Ma come si può fare, ma anche solo pensare di fare una cosa del genere>>.
<<Stia calmo, dottor Canetta,>> gli urlò Marchesi di brutto.
Luigi accese ancora una sigaretta e anche se avesse voluto evitarla, quella situazione la comandava come un obbligo di sopravvivenza. Poi si grattò il mento e non ebbe la forza di evitare nemmeno di dire quello che pensava.
<<Abbiamo scovato un’altra notizia: il nostro amico è un carnefice e anche molto violento. Il suo lavoro pulito termina qui, ora comincia anche a fare il macellaio e in più ci manda il conto fino in casa nostra>>.
Non si girò intorno, ma sentì su di se qualche occhiata violenta, anche se non gli interessò scoprire da quale lato arrivasse. Evidentemente doveva essere più di una.
Il colonnello Piovano si prese tutta l’aria della stanza, poi sputò parole insieme a saliva e forse qualche goccia di sangue per la forza esplosiva con cui le sparò.
<<Faccia rilevare impronte se c’è ne sono e poi via agli esami del dna su qualunque cosa si possa attuare l’esame. Perfino sull’aria che ha sfiorato i pacchi!>>
Canetta chiuse gli occhi, afferrò la gabbia con due mani e si diresse fuori della stanza.




Le ore passavano in fretta.
<<Abbiamo un’impronta! Sulle buste di plastica c’è un’impronta, è incredibile>>.
<<Quale delle dita?>> gridò il Colonnello Piovano da dietro una parete di vetro limitrofa al laboratorio d’analisi. Erano tutti nelle vicinanze del laboratorio per raccogliere al più presto le notizie dei ricercatori.
<<Dalle dimensioni, ad occhio direi che è un pollice. Si ne sono quasi sicuro, è un pollice. Speriamo che ci sia un riscontro con l’archivio criminale computerizzato, è ora di finirla con questa storia. Mi ha tolto due anni di vita e di tranquillità. Preparate il kit di “deposizioni di polveri“, è il metodo più sicuro per estrarre l’impronta dalla plastica.  Operiamo con una soluzione di polvere al piombo carbonato>> rispose nuovamente il Canetta utilizzando il piccolo microfono facciale.
<<Stia calmo Canetta, facciamo un passo alla volta>> riprese ancora il Colonnello.
Nell’altra stanza c’era tutta la truppa che seguiva con ansia lo svolgersi della situazione. Marchesi aveva una luce insolita negli occhi, quasi saccente, qualcosa che non apparteneva, insomma,  al suo modo solito. Dava l’impressione di dare per scontato un risultato negativo, emblematico. Tutti gli altri aspettavano da tempo un errore dell’assassino. E l’errore era arrivato, stampato su quelle buste, come la testa di un nemico su un vassoio d’argento. Probabilmente rapito dall’eccitazione della sfida aveva dimenticato di pulirle. Ora erano li, e se c’era un riscontro nel database, il bingo era assicurato.
<<A che cosa pensa?>> chiese Luigi, quasi bisbigliando a Marchesi, che si era attaccato al vetro come una sanguetta alla pelle di una vittima.
Lui piegò lievemente il capo e poi replicò com’era prevedibile che facesse: con un’altra domanda.
<<E lei a cosa pensa, Febbraio?>>
Luigi sorrise quel poco per dare ad intendere una disapprovazione generale, ma bisognava ammettere che quell’impronta fosse un grande scossone per tutta la storia e certo non si poteva far finta di non averla trovata.
<<Penso che questo pazzo è un gran figlio di puttana! Proprio come mi aveva raccontato qualche giorno fa nel nostro primo incontro. Ma quell’impronta è importante e va seguita>>.
<<Allora vuol sostenere che aveva un disegno e con quest’ultima vittima ha completato il programma. Ora ci porterà nel suo covo perché è desideroso di una cattura alla grande, con giornalisti, elicotteri e squadre speciali. Questa è l’unica spiegazione possibile, perché in passato non ha mai commesso un errore cosi madornale>>.
<<Potrebbe essere una soluzione plausibile. Può anche essere che abbia usato un sacchetto usato e l’impronta appartiene a chissà chi!>> gli si rivolse ancora Luigi.
<<Certo, potrebbe essere, ma mi spiega perché ho la sensazione che lei non ci creda nemmeno un po’, anzi mi sembra che quasi si diverta, mentre tutti corrono e impazzano come se avessero trovato il tesoro di Napoleone?>>
<<Che vuole che le dica? Io sono fatto così, un dissacratore, uno che si contraddice di continuo pur di avere sempre ragione, pur di arrivare prima di tutti. Insomma pur d’averla sempre vinta>>.
<<Già, ma un serial killer che lascia l’impronta del proprio pollice e la regala alla polizia, somiglia quasi ad una barzelletta. L’ennesima, dopo quella del piantone che lascia la stanza dell’assistita incustodita!>>
<<Ma che cosa avete da parlottare tra voi come due donnacce?>> chiese irritato il Piovano, preso da uno scatto d’ira alla vista di quella riunione privata.
<<Niente, capo, si faceva tanto per parlare un poco, in attesa della risposta del dottore Canetta. Non si può?>> rispose Luigi.
<<L’attesa mi distrugge>> sbuffò il colonnello.
<<Fra qualche minuto sapremo. Non è possibile ordinare qualcosa da mangiare nel frattempo?>> riprese Luigi, con un sorriso sarcastico sulle labbra
<<Come no!>> rispose Paolo <<Colonnello, me ne posso occupare io?>>.
<<Qualcosa di leggero, se dobbiamo muoverci è meglio restare efficienti. Giusto per fare gli onori di casa con il signor Febbraio. Altrimenti quando torna sulla sponda della polizia ci criticherà per la cattiva accoglienza. Marchesi, nel frattempo, faccia preparare i ragazzi con giubbotto e tutto l’occorrente, il soggetto potrebbe essere molto pericoloso, meglio effettuare l’operazione con un corpo specializzato. Non possiamo rischiare di farcelo scappare! Nel modo più assoluto!>>
<< Agli ordini, Colonnello. Sempre che l’impronta appartenga a qualcuno in database>>.
<<Naturalmente, capitano. Lei, agente Febbraio, potrà assistere a tutta l’operazione e constatare l’efficienza del corpo dei carabinieri in situazioni di movimento coordinato>>.
<<Certo non potevo restare a casa fare l’uncinetto. Mi permetta! Sarà un onore per me, Colonnello>>.
Fu una risposta sarcastica, ma poco importava, eccitato com’era il Colonnello fece passare anche questa. Oramai secondo le sue sensazioni si era arrivati all’epilogo ed inutile era farsi il sangue amaro per delle sciocchezze o per discordanti opinioni. Quel diavolo si trovava ad un palmo di naso, ed era il lasciapassare giusto, la fine ideale per calare il sipario su una carriera eccellente, priva d’errori e di divagazioni superflue. Nel caso contrario, nell’eventualità di un possibile insuccesso, tutto sarebbe stato vano, come una corsa all’infinito senza traguardo.
Ci si poteva ancora aspettare novità improvvise, bisognava mantenere la calma e fare le cose nel modo giusto, tutto sarebbe andato per il meglio. Almeno era quello che pensava il Colonnello nella sua testa metodica e pianificata dalla disciplina militare. Una speranza fantasiosa, invece, secondo l’istinto degli altri due investigatori.
<<Signore Colonnello, posso entrare?>>
<<E’ già entrato, Capitano Arglieri, cosa è successo di nuovo? Il dottor Canetta e il suo staff ancora non hanno completato le analisi di laboratorio! Allora, se non è per i risultati, a che cosa dobbiamo la sua interruzione? Avevo chiesto di non essere disturbato per nessun motivo al mondo, nemmeno se si trattava del presidente del consiglio o peggio mia moglie>>.
<<E’ quello che ho fatto, Colonnello.>> rispose il giovane Capitano <<Ma sono qui per un altro motivo, molto grave direi >>.
<<Sarebbe?>> chiese il Colonnello con l’aria meno indispettita rispetto a qualche secondo prima.                
<<Hanno chiamato dal RIS di Parma, una telefonata con priorità assoluta. E’ stato recapitato un pacco simile a quello che è in analisi ora nel nostro laboratorio, purtroppo il contenuto è lo stesso>>.
<<Santo Cielo, ma questo è un pazzo scatenato, e mi doveva capitare prima di andare in pensione. Mi rovinerà trentacinque anni d’onorata carriera, me lo sento. Proprio come una spada di un boia sul collo>>.   
Il capitano Arglieri era di faccia, ancora scuro e tenebroso, evidentemente non aveva completato lo svuotamento del sacco fino in fondo.
<< Signore c’è dell’ altro, purtroppo la cosa non è finita qua! Ecco..ecco.. >>.
<<Dica Arglieri, non vorrà mica mi venga un accidenti aspettando che le salti fuori il coraggio di parlare? Siamo Carabinieri, dobbiamo usare calma e raziocinio! Allora mi dica!>>.
<<Ecco.. purtroppo..siamo ecco…>>.
<<Allora, Arglieri, lei mi sta prendendo in giro? Che cosa le è successo? Ha ingoiato la lingua? Mio Dio, siamo tra uomini d’onore! Parli!>>
Arglieri non aveva una faccia, un corpo, una voce e neanche una personalità, era un soggetto che in quel momento sembrava un oggetto qualsiasi, e che, se avesse detto tutto quello che c’era da dire, sarebbe scomparso nel nulla come un’ombra nell’oscurità. Ma quel groppone doveva essere pesante e spinoso perché proprio non gli usciva con facilità.
<<Signore, c’è un’edizione straordinaria del telegiornale sulla prima rete, e il caso in questione è la notizia principale! Evidentemente oltre ai due vasi, il killer avrà provveduto anche ad inviare una folta documentazione ai giornalisti. In pochi minuti tutta la nazione saprà. E quindi penso anche i politici>>.
Parlò di botto, alla maniera di vomito liquido, e si tolse il pensiero. Il Colonnello era impalato e stordito come se avesse ricevuto una raffica di schiaffi da più persone, ma contemporaneamente. Aveva le facce rosse proprio come un cocomero estivo e non era il suo colorito naturale. Appariva grasso, più gonfio, i bottoni della sua uniforme sembrava che volessero schizzare via, come avrebbe fatto un tappo di sughero liberato dal legaccio di spago che lo teneva incollato al collo della bottiglia di un prosecco.
<<Diavolo di un cane, si messo a giocare con la mano pesante.>> esclamò irritato di belva << Capitano Canetta, mi dia un nome e un possibile indirizzo. Ora! Le cose si sono messe molto male>>.
La voce Del Colonnello non si sedò passando attraverso le pareti di vetro poste nel laboratorio, dove il Capitano Canetta ed il suo staff operavano di gran carriera per isolare quella traccia importante, significativa. In verità quella impronta poteva essere di chiunque, anche di un commerciante che aveva utilizzato i sacchetti; se fosse stato così, allora sarebbe stato come calare un pezzo di piombo in un pozzo. Nulla sarebbe ritornato in superficie.
Ma qualcosa venne fuori e giudicando il sorriso appiccicato al volto del Canetta, mentre si avvicinava alla parete di vetro, doveva essere una pista appetibile. L’attenzione si rivolse tutta su l’uomo dal camice bianco e su quello che aveva da riportare. Proprio com’era accaduto con il Capitano Arglieri, prima. Lui, invece, a differenza del primo, era eccitato e non aspettava altro che riferire.
<<Si chiama Massimiliano Corteccia, anni quarantotto, nato a Roma, in libertà da tre anni circa. Arrestato più volte. L’ultima ha scontato nove anni, per uno stupro ad una donna e un tentativo, fortunatamente mancato, ad una ragazzina di quattordici anni. E’ stato fermato prima>>.
<<Dove diavolo abita?>> chiese il Colonnello Piovano.
Luigi viveva quella situazione di metamorfosi continua con un atteggiamento di stasi, di calma piatta, e verificava che anche Marchesi non si allontanava di molto dal suo stato d’animo. Entrambi fissavano qualcosa che secondo il loro istinto non c’era, ma forse si sbagliavano. Poteva essere. Era già successo in passato che avevano commesso degli errori, anche gravi, quindi pesavano in un modo, ma per esperienza agivano secondo la corrente dei colleghi. Restavano nella loro piccola dimensione, aspettando che una tempesta dall’orizzonte arrivasse e li travolgesse.
<<Dottore, ci dia l’ultimo indirizzo conosciuto!>>
<<Subito Colonnello: Via Cesare n. 14, Roma>>.
<<Allora muoviamoci! Noi ci dirigeremo all’indirizzo, le forze ordinarie dirameranno la foto del nostro Babbo Natale. Capitano Arglieri, organizzi la logistica delle operazioni e mi raccomando faccia attenzione che la polizia resti fuori di questa storia. Voglio posti di blocco in tutte le principali città d’Italia. Oggi si girerà un solo film: quello dei Carabinieri>>.
                                                                 

Via Cesare n. 14, non era un posto da favola o da stampare sulle cartoline per i milioni di turisti che fanno “ pipì “ per le strade di Roma ogni anno. La fanno in strada per evitare di spendere una cifra  in caffé e bibite ogni volta che c’è un’esigenza fisiologica, costretti a rivolgersi ad un bar.  Perché il fatto grottesco di questa città, oltre a non avere i servizi adeguati, per eliminare un poco di liquido, è che bisogna  acquistare qualche bibita per non sembrare approfittatori di cessi, allora si entra in un circolo vizioso della vescica. Avere in seno realtà come Via Cesare è come annusare gocce fresche di sudore sotto le ascelle di una donna mentre fa l’amore: un vero contrasto della vita.
Proprio tra bidoni dell’immondizia stracolmi, tra macchine con un vita media superiore a dieci-quindici anni, alle tredici nel giorno dell’arrivo del messaggio firmato “Scolopendra“, i carabinieri incappucciati ed armati fino all’eccesso,  giravano inconsuetamente tra i vicoli di Via Cesare. A quattro zampe, strisciando come rettili, oppure schiacciandosi con le spalle al muro come se volessero spingerlo o addirittura buttarlo giù con il retro del loro corpo.
Gli altri, gli ufficiali, usavano il classico furgone, mimetizzato tra il caos cittadino, tenendosi in stretto contatto con chi operava all’esterno, con radio di frequenza interrotta e piccole telecamere inserite nei caschi della prima linea. 
Piovano era il padrone della situazione! Mostrava esperienza e probabilmente non era solo un’ostentazione, ma qualcosa di reale, guadagnata con sacrifici sul campo. Del resto, aspettava che tutto si svolgesse e si arrivasse alla parte finale. Ma prima di occupare il quarto piano, dove abitava Massimiliano Corteccia, o si supponeva che vi abitasse ancora, ci furono gli ultimi ritocchi all’operazione, naturalmente orchestrate dal gran capo.
<<“Tana del lupo“, chiama “gatto di strada“. Passo!>>
<<“Gatto di strada“ è in posizione. A “tana del lupo” per l’ordine dell’azione.  Passo!>>
<<Okay! Ora attuale: tredici e tre minuti primi. Allo scoccare del quinto minuto della stessa ora, agire. L’ordine è di non interrompere per nessun motivo l’operazione. Ripeto: non interrompere l’operazione per nessun motivo. Nemmeno se ci fossero intralci civili. Agire ad ogni costo. Recepito? Passo!>>.
<<Recepito, “tana del lupo“. E’ tutto pronto>>. 
Un classico ordine militare, chiaro e deciso. Nessuno di quelli sparsi li fuori si sarebbe fermato per alcun motivo: una volta partiti avrebbero dovuto ritirarsi con la testa del nemico, in ogni caso.
Intanto il tempo era arrivato alla conclusione. Le telecamere sui caschi di alcuni militari si accesero e i monitor all’interno del furgone furono il riflesso di quel segnale che avrebbe permesso a chi non era sul campo d’essere presente in ogni modo.
Cominciarono a strisciare come serpi, a velocità ridotta e poi a passo nervoso come quello dei felini nello spazio aperto delle savane. Pochi secondi e al quarto piano battevano più cuori di un pomeriggio qualunque. Le immagini erano nitide, ma leggermente oscurate per la mancanza di luce nella gabbia delle scale. La porta dell’obbiettivo era a pochi passi, bastava di forza sfondarla e il gioco si sarebbe concluso.
Ora l’incognita era a quale costo, però. Quel pazzo aveva inviato il suo omaggio con tanto di lettera d’invito. Quindi era del tutto chiaro che dietro quella porta potesse trovarsi qualche chilo di tritolo o anche più semplicemente una fuga di gas, che non è meno pericolosa della prima ipotesi per potenzialità distruttive. Allora gli artificieri, quando il capo della squadra alzò la mano ordinando il loro intervento, anticiparono il passo degli altri e con l’utilizzo di scanner  controllarono attraverso le pareti che tutti i parametri fossero nella normalità.
Il verdetto fu negativo: il percorso era sgombro.
Il capo squadra alzò leggermente il braccio sinistro con il pugno chiuso, se avesse aperto la mano l’operazione d’assalto sarebbe iniziata.
<<Massimiliano Corteccia,>> gridò come se la sua voce dovesse essere acuta per superare qualsiasi ostacolo << siamo fuori dalla sua porta. Si arrenda, è il capo dei Carabinieri che le parla. Se si consegnerà a noi senza opporre resistenza, le garantisco che non subirà nessuna ritorsione fisica. Garantisco anche per altre persone che potrebbero essere con lei ora. Risponda!>>
Dall’altra parte della porta come risposta non ci fu nessuna voce, nessun rumore. Il palmo della mano si aprì e la reazione sincronizzata immediata dei  militari fece intendere che tutti fossero concentrati sull’arto del capo e su nessun altro obbiettivo.
<<Okay, ragazzi cominciate a sfondare! Chiunque ci sia, stiamo per entrare>>.

La porta si era staccata dallo stante. Il capo fece cenno di spingere di spalla in un colpo solo, mentre il resto della squadra si sarebbe preparata per il classico fuoco di copertura. La prima linea era pronta. Con cautela ed esperienza, si fecero forza di una rincorsa di qualche metro per dare più peso al corpo, ma prima di tutto un fumogeno attraverso la leggera fessura della porta, che era libera dalla serratura.
Non restava che sfondare. Quando il fumo cominciò a dileguarsi, i corpi di due donne distese sul tavolo della cucina fu lo spettacolo atroce. Entrambe avevano i seni straziati da un taglio impreciso e violento. Un uomo senza vita, da una prima occhiata, giaceva su una sedia nel lato opposto. Dopo quella perlustrazione preliminare non restava che chiamare i soccorsi medici, da sparare e da uccidere c’ era ben poco.
<<C’e bisogno della scientifica. Ho riconosciuto il soggetto, è Massimiliano Corteccia, come da foto segnaletica in nostro possesso, è senza vita su una sedia. Siamo in allarme massimo. Poi ci sono altre due donne, purtroppo…..>>
<<Lo vedo dai monitor. Okay, perlustrate la zona con il massimo tatto. Potrebbe esserci ancora qualcuno. Poi faccia sgombrare lentamente e con altrettanto tatto. Facciamo intervenire la scientifica!>>
Le immagini arrivarono nitide ai monitor, proprio com’era accaduto dal primo momento dall’inizio dell’operazione.
Le reazioni di sgomento e d’incredulità si erano attaccati sulle facce di tutti gli spettatori: Luigi accese nuovamente una sigaretta.


CAPITOLO XII


Roma, rione Campitelli.
10 novembre 2003.
Qualche giorno prima dell’irruzione in casa Corteccia.




<<Quello che devi fare per me è molto semplice. Pochi minuti per cinquemila euro in contanti, naturalmente alla fine del lavoro>>.
L’altro beveva con aria scettica il suo liquore secco, mentre quel estraneo continuava a parlare di cose strane, di balle fuori della terra.
Se aveva capito bene e l’alcol non giocava brutti scherzi, gli stava offrendo cinquemila euro in contanti per stuprare un bambino di un quartiere vicino. Cinquemila euro, era assurdo, di solito queste cose si fanno gratis.
Basta che qualcuno ti dia una dritta su una famiglia sballata e il gioco è fatto, al bambino sembrerà una cosa naturale, un evento obbligatorio della vita per uno che è destinato a vivere ai margini della società.
Si faceva il suo bicchiere e pensava a varie cose, tutte contemporaneamente: un po’ si eccitava al pensiero, ma poi si scuoteva chiedendosi chi diavolo fosse l’uomo con la faccia da vampiro.
Certo. Aveva proprio una faccia da vampiro, senza storia e senza epoca, come uno che entra nel gruppo e si lancia sulla carcassa dell’animale ucciso dagli altri per ripulirsi tutta la carne migliore.
Aveva solo detto di chiamarsi Michele e il ragazzo cui fare il torto, invece, si chiamava Tommaso Forte, nient’altro. Nessun particolare, se non quello saporito e gustoso della lauta ricompensa: i cinquemila.
<<E perché vorresti fare uno sgarro del genere al piccolo?>>
<<Se ti ho offerto tanti soldi è perché non amo le domande. Capisci? Tu fai quello che devi fare e io ti pago senza battere ciglio. Poi ognuno per la propria strada>>.
Il sospetto che doveva essere un vampiro, dopo quelle parole, divenne certezza: aveva gli occhi fuori delle orbite, le orecchie rosse come una cresta di un gallo, poi l’alito era pesante, un odore di chi ingoia carne umana e non riesce ad espellere le feci da qualche tempo.
Uno senza scrupoli che incuteva paura perfino ad un pedofilo come Massimiliano Corteccia, scampato varie volte alla legge, per dirla tutta, non aveva mai pagato quello che avrebbe dovuto, ma meritevole di ardere nelle fiamme dell’inferno.
<<Ognuno per i fatti suoi? Tu scherzi amico, non puoi dire “al Corteccia“ cosa fare! Ho il coltello facile e potrei passarti da una parte all’altra come un maiale. Cosa credi che prendo ordini dal primo che si siede al mio tavolo senza permesso? E poi non mi hai ancora detto come hai fatto a trovarmi. Io non ti ho mai visto, qualcuno ti avrà parlato di me!>>
Il vampiro sorrise con una leggera smorfia delle labbra, il giusto senza strafare.  In seguito il sorriso si trasformò in ghigno, duro e sdegnoso.
<<Hai detto delle belle cose, molto creative, ma ora avrei da farti una domanda, se puoi concedermi ancora un po’ di tempo>>.
<<Cazzo, se ti togli dalle palle prima del dovuto, ti risponderò molto volentieri, “morto di fame“!>>.
Michele alzò lo sguardo di scatto, come se qualcuno gli avesse dato uno sbuffo dietro la nuca e poi si fosse allontanato beffeggiandolo.
<<Perché mi hai chiamato morto di fame?>>
Corteccia chiese un’altro bicchierino, prima di leccare superficialmente una malboro lungo tutto il tabacco. Poi aprì un piccolo contenitore dorato con della cocaina e vi appoggiò molto accuratamente la sigaretta dal lato umido.
<<Perché? Perché mi “pippo“ oltre duecento euro di roba al giorno senza contare puttane, e locali notturni la sera, quindi il mio istinto mi dice che se ti metto sotto sopra non riesco a tirare nemmeno cinque euro dal buco del tuo culo. Pensa cinquemila! Sono stato abbastanza chiaro con la mia risposta>>.
Michele si passò la mano sulla fronte e non per asciugarsi il sudore, era gelido come un morto. No, lo fece per raccogliere pazienza e serenità, e forse inconsciamente mentre si adoperò in quel gesto, invocò anche l’aiuto di Dio, come farebbe ogni buon cristiano in un momento di difficoltà e di smarrimento. Ma di questo particolare non è certezza sapere perché con il senno del poi, con lucido ripensamento, era impossibile per lui solo nominare il Suo nome. Allora quello che disse in quel momento, o per meglio dire quello che gli uscì da bocca in quel momento, fu solo un eco delle corde vocali. Preferì pensarla così.
<<Quindi tu mi dici che sono un morto di fame, un pezzente che è venuto in questo bar solo per perdere tempo e per farlo perdere a te che sei una persona rispettabile? E’ questo quello che dici Corteccia Massimiliano, detto il “macellaio di cagnolini“?>>.
L’altro a queste parole e al tono di voce si sbiancò come un lenzuolo di lino latteo, e dava l’impressione, soprattutto quando riascoltò di nuovo il soprannome, che per anni era stato il suo lascia passare in tutti i sobborghi malfamati della città, di essere assalito da una grave insufficienza respiratoria. Allora con un cambiamento repentino la sua carnagione, dal bianco s’infuocò di rosso, prese a rispondere a strattoni.
<<Come.. diavolo fai a sapere.. il mio soprannome, è morto e… sepolto da anni. Non sarai.. il padre di qualche.. moccioso che mi sono… fatto in…. passato e ….ora vuoi vendicarti. Cazzo, non usciresti vivo da questo cesso di bar. Qui sono tutti amici miei!>>
<<Basta, stai zitto. Cerca di calmarti. Ti ho già riferito quello che mi serve da te. Non sono qui per farti la pelle. Io concludo affari e non vendette>>.
Il tono fu ancora più aspro, ma anche rasserenante rispetto a quello che si erano detti prima, o per lo meno questo fu l’effetto su Corteccia.
<<Mi devo calmare? Allora, se ho capito bene, vuoi parlare solo d’affari, certo i cinquemila per  lo sgarro in cambio. Va bene, parliamone con tutta la civiltà di cui siamo capaci. Okay, stiamo calmi. La calma è la virtù dei forti e di chi sa fare buoni affari a tavola. Ah, che idiota che sono! Non ti ho offerto nemmeno qualcosa da bere. Cosa prendi?>>
<<Camomilla!>>
 <<Camomilla sia! ”A Gianni”, un altro bicchiere per me, anzi due, e una camomilla per il mio amico….?>>
<<Michele, ti ho detto prima che mi chiamo Michele>>.
<<Certo, certo. E’ che sono un tipo un po’ sbadato. Ma ti garantisco che se togli il cannone che mi hai puntato allo stomaco da sotto il tavolo, potremmo parlare meglio e soprattutto da ora in poi non dimenticherò quello che mi dirai in futuro. Che ne dici?>>
<<Dico che il cannone resta puntato in direzione del tuo stomaco e quando mi mancherai di rispetto come hai fatto prima, lo spingerò nuovamente contro le tue palle per fartelo sentire, in modo che tu possa tralasciare immediatamente gli atteggiamenti da cafone con cui ti sei rivolto nei miei confronti>>.
<<Ti garantisco che non succederà più, ora siamo amici… Camomilla hai detto, vero? ……E’ comica come cosa, due uomini in un bar con camomilla e cocaina…..sembra quasi una barzelletta.. Eh, Eh…Mi fa ridere di gusto>>.  
<<Beato te che hai voglia di ridere, a me è passata da una vita: forse non è mai stato un mio desiderio ridere, amo sconsideratamente il pianto e il dolore. Tu non hai mai provato del sano e fisico dolore, Corteccia?>>
<<Qualche volta, ognuno.. di ..noi ha  il proprio passato che .. fa male…..quindi…>>.
<<Quindi non ti senti un cane, quando fai male a quei bambini?>>
<<Lasciamo stare! E parliamo d’affari. Dimmi quello che devo fare e seguirò le tue indicazioni alla lettera, poi ognuno per la sua strada, senza girarsi alle spalle per cercare di rincontrarci. Voglio solo restare tranquillo, in pace e godermi la roba e l’alcool. Intesi? Tu mi lascerai in pace dopo che avrò fatto quello che devo. Non voglio più storie…>>
<<Non preoccuparti, quando sarà tutto finito, non c’incontreremo più. Garantito, hai la mia parola. Ora questo è il mio numero di telefono; è una scheda rubata, naturalmente. Terrò attivato questo telefonino per tre giorni da adesso, se allo scadere di questo termine non avrai completato il lavoro, riterrò il nostro patto concluso. Se, come spero, invece andrà tutto per il verso giusto, allora i cinquemila finiranno nel tuo naso e sotto le sottane delle puttane che frequenti. Okay?>>.
<<Okay! Ma perché solo tre giorni? Potrei non averne la possibilità!>>
<<L’avrai, l’avrai. La madre fa la puttana in casa! Basta che approfitti di una sua uscita ed il gioco è fatto. In quel palazzo, ognuno pensa ai fatti suoi. C’è droga, prostituzione, malavita…nessuno baderà a te!>>    


Non trascorsero molte ore, forse quarantotto, quando la telefonata arrivò decisa e senza lasciare spazio ad incomprensioni o ad equivoci: tutto era sistemato.
Il compito era stato svolto senza sbavature e senza errori, ora c’era da incontrarsi e farla finita per poi metterci una pietra sopra definitivamente. Michele aveva incontrato nelle scale Tommaso e il suo sguardo diceva tutto. Lo conosceva benissimo, quello sguardo. Era il suo da quando quel vecchio lo aveva stuprato. Ora che era accaduto anche a Tommaso, l’uomo provava dolore forte, improvviso, ma ben identificabile perché aveva percorso anche lui quella strada. Quella terribile strada.
Corteccia, dalla voce al telefono, sembrava del tutto sballato, fatto fino alla cima dei capelli, e aveva chiesto con insistenza il denaro perché, per fatti suoi, aveva degli impegni cui non poteva mancare.    
Michele, a suo solito modo, si preparò per uscire adoperando tutte le precauzioni per scendere in strada; prese il coltello, la pistola, e vari flaconi di cloroformio.
Aveva segnato l’indirizzo della casa del Corteccia per non dimenticarlo sul palmo della mano e mentre percorreva la strada, ogni tanto gli dava una ripassata come se volesse ad ogni momento rinfrescarsi la memoria.
Era stato l’altro ad insistere con forza perché fosse lui che si muovesse e salisse sopra da lui, poiché non aveva nessuna intenzione d’incontrare quel vampiro in un vicolo cieco o nell’oscurità della città. Oltre a questo, aveva invitato un paio di donnacce del quartiere, donne che facevano la vita; un’ulteriore precauzione. Provava una fifa del diavolo solo al pensiero di rimanere a quattro occhi con quell’individuo.
Solitamente le due non amavano mischiarsi con gentaglia come il Corteccia, era un pedofilo, ma lui aveva sempre della roba buona, pulita, per chi vuole divertirsi ed evitare un’overdose, questo è un motivo più che sufficiente per rispettare e considerare amico chiunque. Quindi anche questa volta non avevano rifiutato l’invito, nonostante sapevano che aveva il viziaccio.
In casa il festino era iniziato già da un’ora ed il Corteccia aveva sniffato qualche striscia sui seni di entrambe; amava alla pazzia farlo perché riteneva che si sentiva un signore, potente come gli sciacalli e panzoni ricconi che riuscivano appena a spogliarsi da soli tanto il grasso che si portavano dietro e che lui bazzicava per fornirli di roba. In ogni modo sempre tenuto a distanza nei momenti di gala, pari ad un cane con la rogna.
Erano sodi e ben fatti, forse rifatti, ma eccezionalmente libidinosi e lui li amava non tanto per la loro bellezza, ma per quello che avrebbero rappresentato se un giorno fosse arrivato al successo e al potere: la bella vita.
Ma “bella vita” senza rubare alla giornata o vendere qualche grammo di cocaina tagliato con l’aspirina ad un drogato cronico.
La bella vita doveva essere intesa simile al rispetto, come la paura letta negli occhi di chi ti sta di fronte, che in continuazione ha timore d’incrociarti ogni volta che passeggia sul tuo stesso marciapiede, oppure quando lo incontri in un locale. Questo è da intendere “bella vita”, quando si parla di un uomo della strada, che frega gli altri per sfamare i suoi vizi.
Poi macchine, gioco, donne, viaggi, cavalli, droga, night.
Ed Corteccia tutto questo c’è l’aveva in testa, nello stomaco, come un evento che si aspettava con sicurezza, e la compagnia delle due gli faceva annusare l’anticamera di quella vita.  Non le considerava come persone, ma semplici oggetti, o specchi adornati che riflettevano uno status da raggiungere. Anche se prostitute, possederle gli dava libidine.
Mentre ripercorreva con la mente il sogno della sua esistenza, il campanello squillò con la stessa autorità di una campana di campagna: intorno tutto l’ambiente divenne sordo, pacato, e poi subito irrequieto, simile ad un cortile dei carcerati nell’ora d’aria.
<<Ragazze, è la nostra gallina dalle uova d’oro. Mi raccomando siate gentili con lui, è un tipo abbastanza scontroso, ma allo stesso tempo pieno di sé>>.
<<Spero che sia uno di classe e non un primitivo come te, Corteccia!>>
Aveva lo stretto necessario come vestiario: una minigonna, sopra collant che s’infilavano in un paio di stivali di pelle nera, fino all’altezza delle ginocchia. La parte superiore era sparita tra la stanza, i seni erano liberi eccitati dall’aria fresca che proveniva dalla finestra aperta e lei li portava con disinvoltura, anzi sicuramente con fierezza e non con vergogna. Poi c’era la brezza della cocaina.
<<Leonia, perché non ti copri, mentre questo cazzone non va via?>>
<<Ah, Corteccia, perché, va via? Non resta con noi? Si mette su una bell’orgia, di quelle casalinghe, insomma di quelle che non ti scordi tanto facilmente. Ah, forse ho capito, sei preoccupato che questo è più bravo di te e allora t’è venuta gelosia! Ma non darti pena perché molti sono più bravi di te, tu sei solo un primitivo con tanta buona cocaina. Tutto qua!>>
Il campanello suonò per la seconda volta. Corteccia questa volta non aveva sentito, le orecchie gli si erano riempite di collera e stava provando un desiderio d’ira che gli saliva giù dalle ginocchia fino alla testa.
L’altra, stesa sul divano, si scrollò di dosso il rilassamento della droga e si accorse subito che le cose stavano prendendo una brutta piega per le penne della sua amica – collega.
<<Oh cazzo, ragazzi, siamo qui per divertirci. Dai, Max, non prendertela, lo sai che è fatta di roba come un imbuto cinese. Non sa quello che dice!>>
Cominciò a leccarlo lungo il collo per arrivare alle labbra, poi continuò a sussurrargli nelle orecchie parole dolci e false, perché era garantito che quello che gli diceva era falso, ma a Corteccia non importava, gli piaceva, quando faceva in quel modo, quando in pratica si buttava ai suoi piedi come un  agnello, per supplicare di non essere sgozzati.
<<Dai, Max, perdonala, è una drogata che non sa quello che dice. Dimmi, ti ecciti quando ti chiamo Max, vero? Sento che sei un vero stallone, oh se lo sento! Max lo stallone, un vero animale da letto….. Ma ora apri la porta al tuo amico, ricordati che ha un mucchio di soldi per farci divertire; è meglio non farlo aspettare troppo, potrebbe ripensarci!>>
<<Ripensarci? Se facesse una cosa del genere gli taglierei la gola e succhierei tutto il sangue. Lasciami Katia, mi sono calmato, è inutile che continui con la tua recita! E’ tutto a posto; ora gli apro la porta, e la facciamo finita per stasera>>. 
Poi guardò l’altra sul divano, stesa senza grazia, buttata lì come un sacco di patate, al posto dell’amica che era corsa in suo aiuto.
<<Per stavolta ti sei salvata, brutta stronza, ma ricordati che se mi offendi di nuovo non garantisco per lo stesso finale! Intesi?>>
Lei lo fissò come avrebbe fissato uno qualsiasi che parlava, era talmente fatta che aveva per la testa tutt’altra dimensione, lasciando intendere in ogni caso, però, d’essere presente.
Massimiliano si diresse alla porta con la stessa consapevolezza di un condannato a morte. Montò con la mente i gradini della forca, provava terrore e il guaio più grande era che non riusciva a nasconderlo. La voce gli tremava, anzi il tremolio partiva dallo stomaco che oramai si era ribellato a qualsiasi ordine del cervello. E le mani poi, sembravano quelle di un batterista nel momento di un assolo; ma perché quello doveva incutergli tanta paura?
Non lo capiva, ma lo avvertiva e non riusciva proprio a nasconderlo, e intanto il campanello squillò per l’ennesima volta.
<<Un attimo! Arrivo!>>
Aprì la porta fissando fortemente le mattonelle del pavimento, concentrandosi tra i solchi di gesso che si trovavano tra l’una e l’altra. Era un modo diverso per stemperare la tensione.
<<Buona sera, scusami se ti ho fatto aspettare, ma ero impegnato in una cazzo di discussione con le mie ospiti. Ti piacciono?>>
Lui non batté ciglio, né tanto meno mostrò imbarazzo o sorpresa per l’affollamento inopportuno della casa.
<<Pretendi che ti dia un giudizio dal pianerottolo? Lasciami entrare e poi ti dirò>>.
<<Come no, è che sono leggermente intontito. Accomodati pure, fai come se fossi a casa tua>>.
Le due donne si accorsero che era molto diverso dal Corteccia e anche dagli altri bavosi che frequentavano di solito. Un bel fisico, nerboruto, con dei lineamenti del viso piacevoli, il che non guasta mai, soprattutto quando una serata di lavoro si può trasformare in piacere inaspettato.
<<Max, non ci avevi detto che il tuo amico è così carino. Ciao, mi chiamo Katia e quella maleducata seminuda sul divano invece è Leonia. Il padrone l’ha sgridata, ma non ha voluto sentire ragioni, ti ha voluto dare il benvenuto con un piccolo omaggio: le sue tette. Non ti dispiace vero?>>
Era entrato. Aveva subito occupato una sedia al centro del salone e pigliato leggermente dall’insolita atmosfera, fumò una sigaretta, con l’intento di rompere immediatamente il ghiaccio.
<<Dispiacermi? E perché mai, anzi me la farei subito, senza perdere tempo in chiacchiere e cazzate varie. Ma purtroppo io e il padrone di casa dobbiamo parlare prima d’affari, poi dopo, se ci sarà tempo, potremmo consumare un po’ di buona carne>>.
Katia gli stava davanti e lui non perse l’occasione di toccarle la coscia appena sopra il ginocchio, con un movimento vorace, ma allo stesso tempo delicato e sensuale insieme.
<<Vedo che non perdi tempo>>.
<<Con le persone che dico io, mai>>.
<<Ora basta!>> interruppe Corteccia <<Risolviamo le nostre questioni d’affari; è per questo motivo se ci siamo incontrati stasera. Vieni con me nella stanza da letto, là potremmo restare qualche minuto in tranquillità>>.
Dal divano arrivò una risata squillante e grossolana allo stesso tempo, come il verso di un’oca rincorsa da un pericolo.
<<Ecco scoperto il segreto! Sei geloso perché te lo vuoi fare tu! Ah, Ah, ho sempre sospettato che fossi una checca, ma ora ne ho la certezza. Signori e signore, udite: il Corteccia è una checca, e si porta il nostro amico in camera da letto….>>
<<Ora basta stronza, giuro che ti sgozzo qui sul divano come un porco e poi ti chiudo in un sacco della spazzatura…>>
Quando lo videro imbestialito come un selvaggio, si lanciarono alle sue spalle cercando in ogni modo di tenerlo buono e calmo.
<<Corteccia, stai tranquillo! E che mi combini, vengo a casa tua e tu mi fai assistere a tutto questo, cerchiamo di restare sereni. Io sono Michele, il Michele del bar di qualche giorno fa e non voglio casini, soprattutto quelli con la polizia. Li odio quei tipi di casini, tu mi capisci? E allora fai il bravo bambino, facciamo quello che dobbiamo e poi dimostrerai a quella signora quanto sei uomo. Perché tu sei un uomo d’onore, vero?>>
<<Certo che sono un uomo d’onore, infatti ho concluso quello che dovevo entro i tempi prestabiliti. Ora sei tu che devi mettere mano alla tasca!>>
<<E perché sarei qui altrimenti, allora?>> gli rispose con un sorriso falso sulle labbra, falso come le promesse della vita.
<<Allora non c’è nessun problema, entriamo di là e risolviamo la questione, perché da un po’ mi girano, e voglio farla finita in fretta. Basta con le cazzate, okay?>>
<<Okay! Non c’è bisogno di scaldarsi tanto. Stai calmo, Corteccia. Affari, solo e puri affari, non m’interessa nient’altro. Ti pago e tolgo il disturbo, non voglio che accada niente che ti possa urtare. Noto con piacere che hai tirato fuori le palle, rispetto al nostro ultimo incontro. Mi fai quasi paura. Attenzione, quasi paura>>.
Katia appariva la più lucida, e non era solo una condizione d’aspetto, ma lo dimostrava con i fatti, con azioni diplomatiche chiare, finalizzate a raffreddare situazioni di fuoco, che si moltiplicavano simile ai pidocchi tra i peli di un cane di campagna.
<<Ragazzi, ragazzi!>> l’interruppe con il suo stile femminile sdolcinato <<Restiamo calmi! E’ una serata per divertici e restare in sana compagnia, siamo tra persone civili ed adulte, quindi ora andate di là, concludete i vostri affari, mentre noi ci diamo una rinfrescata per farci trovare al massimo della forma quando avrete concluso. Okay?>>
Michele aveva notato dal primo momento che quella donna aveva del pepe, e, allo stesso momento, s’era accorto che l’altra l’unica cosa che sapeva fare bene sniffare cocaina e combinare guai. Allora volle darle ascolto come premio per la sua intelligenza e procacità.
<<Okay, la tua amica ha perfettamente ragione: siamo qui per affari. Allora portiamoli a termine>>.
Anche Corteccia s’acquietò, in fondo, ora che il lavoretto era finito, quello che aveva da perdere tutto era lui. Proprio così, a quel vampiro cosa importava di come sarebbe finita la serata, oramai lo scopo lo aveva raggiunto. Quindi chi doveva guardarsi le spalle era il Corteccia, perché l’altro non avvertiva nessuno scrupolo o timore: gli era stampato in faccia come una foto e questa strana sicurezza nello sguardo gli dava potere verso gli altri, come una forza misteriosa. Non c’era bisogno di conoscerlo da una vita, bastavano dieci minuti e la luce di quegli occhi ti entrava nello stomaco come farebbe un pugno di un pugile professionista.   
Era il diavolo, o il figlio avuto sulla terra. Sfidava tutto e tutti, con l’atteggiamento di un ragazzino bullo, sporco nelle mani e sulla faccia, pareva che non avesse mai premura di rientrare la sera, perché senza casa e famiglia.
Figlio del niente, libero da qualsiasi epoca. Corteccia l’esperienza da marciapiede l’aveva fatta nella sua vita, mangiando polvere e cazzotti, da tutte le parti, dai suoi pari e dalla polizia, quindi quel tipo lo conosceva, lo aveva incontrato diverse volte nella vita. Certo aveva lineamenti e nome diversi, ma lo spirito era sempre lo stesso, quello del giocatore che punta tutto senza riservarsi una giocata di rivincita.
Allora n’aveva avuto paura prima che arrivava, ma soprattutto adesso, di persona, e gli parve che fosse venuto lui a riscuotere qualcosa, invece di portare soldi; questa era l’impressione che tirava. 
Quindi l’idea di fare una festicciola tra amici gli scendeva nello stomaco come un pezzo di cactus. Punto secondo, non gli pareva di buona coscienza allacciare rapporti stretti con uno sconosciuto, anzi doveva sbrigarsi ad allontanarlo per sempre dalla sua vita.  
 <<Oh, Corteccia, che ti sei addormentato? Andiamo di là o ti è passata la voglia di prendere i quattrini?>>
Si svegliò di soprassalto, con la schiena attraversata da una scossa di corrente ad alto voltaggio.
<<Cosa mi è passato? Andiamo amico, non prendermi troppo in giro! Ragazze, noi ci assentiamo un attimo.>> mentre parlava si avvicinò a Katia <<Stai attenta alla tua amica, altrimenti quando avrò finito con lui, potrei riservarle un bel trattamento. Intesi?>>
Lei aveva gli occhi pieni di paura, ed il desiderio dentro di voler essere a chilometri di distanza da quella casa, ma non senza la sua amica.
<<Certo che ci sto attenta. Ti ho promesso che non ti darà più fastidio. Ora fai le tue cose e cerca di calmarti altrimenti sarò costretta ad andare via>>.
<<Andare via? Allora le puttane questa sera hanno alzato tutta la testa. >> le prese il braccio e la tirò a se con forza
<<Ascoltami con attenzione, tu e la tua amica resterete qui per tutta la notte e mi tratterete come un principe. Il Corteccia non si fa fregare tutta quella roba per poi essere scaricato come un sacco di spazzatura. No, proprio non è possibile una cosa del genere……. Capisci? Ne va della mia reputazione, quindi avverti la tua amica che tenga la bocca ben calda perché quando uscirò da quella stanza non dovrà usarla solo per dire cazzate!>>
<<Okay, è tutto a posto. Se resti calmo, a me va di restare in tua compagnia. Però non fare il pazzo perché mi spaventa vederti in quelle condizioni>>.
Apparve quasi come una frase intima, il succo fu che realizzò il fine per cui era stata pronunciata:  Corteccia si riempì la faccia di colori umani e normali smorfie di compiacenza.
<<Non ti preoccupare, quando mi parli così mi rilasso. Ora va, meglio, aspettami!>> le rispose quasi con un fare sdolcinato.
Michele era rimasto qualche metro distante da loro due, ma non per questo non aveva ascoltato tutta la conversazione, e si era anche divertito, forse per la goffaggine del Corteccia, o forse per il semplice motivo che tutta la situazione cominciava ad essere comica. Resta il fatto che aveva un sorriso sulle labbra, lo stesso sorriso che rendeva impotente chi gli stava di fronte; un’arma tagliente come la lama di un coltello. Ma il padrone di casa, quando si girò nuovamente per invitarlo ad entrare nella stanza da letto, inscenò di non accorgersi di quel ghigno, oramai sentiva l’esigenza di portare al termine la situazione con la massima calma. Anche perché aveva capito che l’individuo andava cercando rogne, ed era meglio non rispondere alle provocazioni.
Dopo qualche minuto furono nella stanza da letto, Michele aveva preceduto l’altro e appena arrivati, seduto sul letto, si era reso padrone dell’ambiente.
<<Ti dispiace se mi siedo?>>
<<Ti sei già seduto!>>
Allora il ghigno diventò qualcosa d’ancora più irritante.
<<Io mi prendo tutto quello che voglio nella vita, ricordalo, Corteccia!>>
<<Bene, non lo metto in dubbio e per questo motivo non voglio merda nella mia casa. Tu mi hai dato un ordine ed io  l’ho portato a termine, ora dammi i miei soldi e facciamola finita!>>
<<Come no, è la prossima cosa che farò, subito dopo che tu mi avrai raccontato i particolari del tuo lavoro. Allora vuota il sacco, hai provato libidine quando hai violentato il piccolo Tommaso? E’ stato più un regalo per te che un lavoro, vero? Ed i genitori si sono accorti di qualcosa?>>
Il Corteccia avvertiva un calore strano, per istinto decise di accontentarlo, proprio per evitare che la discussione degenerasse in qualcosa d’irreparabile.
In fondo per tale motivo aveva invitato le ragazze presenti nell’altra stanza, testimoni se a quel pazzo veniva in mente di far sparare il suo cannone d’artiglieria.
<<No, nessuno si è accorto di niente. Tutto è filato liscio come l’olio, tranquillo……. Riguardo al ragazzino, ho fatto…..>>.
Michele iniziò ad infiammarsi di rabbia e una sua parte si rifiutava di ascoltare quel dramma. Dramma inflitto al suo povero amico Tommaso, piccolo bambino che gli aveva donato gioia ed amicizia.
<<Molte volte in queste situazioni, essere sbrigativi significa usare violenza animale. E’ vero Corteccia? Sei stato violento?>>
Cominciò a sudare freddo, non sapeva proprio cosa rispondergli e soprattutto non riusciva ad immaginare quando sarebbe uscito da quella stanza maledetta.
<<Che cosa ti aspettavi che sarebbe stata una passeggiata? Ma cosa diavolo mi stai chiedendo ?……E’ naturale che è stata una violenza….. >> protestò sottovoce l’interrogato.
<<Ti chiedo se è stato un piacere per te maltrattare quel bambino. E’ stato un atto di libidine sì o no. Rispondimi, ora!>>
Una trasformazione, non poteva trattarsi di altro, Corteccia assisteva ad una metamorfosi. L’uomo si tramutava in quello che lui aveva sempre sospettato che fosse: il diavolo.
Gli occhi erano di fuoco, le vene sulle mani e al collo pulsavano sangue in quantità sconvolgente, ingrossate come tubi di un oleodotto, l’alito pesava di puzzo forte. Un puzzo di morte.
La paura si faceva avanti, non l’avvertiva solo come un brivido o una sensazione, ma cominciava a fare male. Un dolore insolito che dalle ossa si trasferiva in tutte le arterie del suo corpo, per poi fermarsi nello stomaco e nella vescica. C’era poco da confondersi, stava per farsela nei pantaloni, proprio in quel momento, proprio in quel posto. Non riusciva a trattenersi; aveva incontrato maledetti nella sua vita, ma quello era diverso, più forte, più malefico, uno che non ha niente da perdere nella sua vita. Allora si comportò ancora d’istinto, spinto anche da una terribile crisi isterica. Improvvisa.
<<Cazzo, ha sofferto come un agnellino quando è sgozzato. Ha pianto, ha gridato, ma gli ho tappato la bocca fino a soffocarlo e poi non ricordo più un mazzo perché la testa ha cominciato a viaggiare a mille>>.
<<Ti viaggia a mille, quando approfitti di quelle piccole anime innocenti ed indifese!>> non fu una domanda, ma un atto d’accusa.
<<Certo, a mille! Proprio come quando sniffo cocaina, mi eccito allo stesso modo: giro a mille! Ed ora cazzo, basta così, mi sono rotto i coglioni di giocare. Dammi quello che mi tocca>>.
Si era mosso di scatto, veloce come una iena, isterico come un serpente, quando tenta di ipnotizzare la sua preda. Resta che aveva una pistola tra le mani, tirata fuori di sotto il cuscino del letto, ed era puntata contro il diavolo, pronta a sputare fuoco, anche se tutto il vicinato si accorgeva del casino degli spari. Meglio morte al nemico, quello che sarebbe venuto dopo aveva poca importanza, la priorità era salvare la pelle ad ogni costo.
Ed il gioco oramai s’era fatto insostenibile. 
<<Allora, ora mi consegnerai quello che mi tocca e la facciamo finita una volta per tutte. I cinquemila, passami i miei cinquemila!>>
L’altro non si era smosso di un millimetro, restava immobile con il solito ghigno sul viso con una tale tranquillità che quella puntata contro non sembrava una pistola.  
<<Guarda un po’, il Corteccia ha tirato fuori le palle, allora non è vero che te la prendi solo con i bambini, ma hai coraggio anche con i tuoi pari. E pensare che tutti ti definiscono una mosca da merda>>.
Il padrone di casa sbuffava come il toro, ma continuava a tremare come una foglia; quello proprio la faccia di paura non l’aveva, nemmeno con una pistola puntata contro. Doveva essere il maligno, non c’era dubbio.
<<Senti, se mi dai subito quei soldi, ti garantisco che ti faccio uscire senza torcerti un capello. ….Hai la mia parola>>.
<<Ma io voglio darti tutto quello che ti tocca, prima devi rispondermi in modo molto diretto>>.
<<A che cazzo devo rispondere?>> la tensione gli faceva tremare la mano molto visibilmente.
<<A quello che ti ho chiesto poco fa: hai goduto come un porco quando hai approfittato del piccolo Tommaso?>>
Ora la tensione si era trasferita negli occhi. Gocce d’acqua, forse per il troppo nervosismo, cominciavano a scendergli giù dalle guance.
<<Si, ho goduto, ho goduto come un porco!>>
<<E non ti penti per questo, povera pecora smarrita?>>
In piedi, recitava come se avesse ricevuto un’ispirazione divina, ultraterrena e anche lo sguardo improvvisamente si era colorito di dolcezza, d’accoglienza.
<<Ma chi diavolo sei, un santone, un pazzo che crede di essere un Dio? Perché se è così ti ammazzo subito, ora!>>
<<No, no fratello non devi avere paura di me, perché sono qui per tenderti la mano ed aiutarti a dimenticare il tuo passato. A redimerti dai tuoi peccati! Consegnami la pistola, poi potremmo parlare con calma>>.
Corteccia cominciò a ridere di gusto, e le risa si mischiarono al pianto e allora sembrò che veramente fosse diventato pazzo anche lui.
<<Ah, ah, ora sai cosa faccio? Ti sparo……Già….ti sparo proprio in mezzo agli occhi, così non sarò costretto a vedere la tua faccia mai più, nemmeno sulle foto del giornale di domani mattina. Cosa ne dici? Ti piace l’idea? Io la vedo tranquilla! Tu no?>> 
Il sudore veniva giù a gocce di pioggia, partiva dalle radici dei capelli e scendeva su quella pelle rossastra e infettata da qualche brufolo di grasso sparso un pò per tutta la faccia. In effetti, Corteccia le sembianze del porco le aveva tutte: con quei capelli di pelo da scopa,  le orecchie alte e larghe, il naso infossato nella faccia come se qualcuno lo avesse tirato dentro alla mascelle con una raffica di pugni. Per non parlare dei modi, anche se avesse avuto fortuna, nessuno lo avrebbe preso per un “signore”. Ma il destino da quel preciso momento, da piatto e mediocre, gli si riversò contro di butto e gli divenne del tutto negativo.
Perché fu un attimo di distrazione, forse solo di sconforto o di paura, ma la pistola gli sparì dalle mani proprio come gli sarebbe sparita dalle vene la vita da lì a qualche istante.
Quello che veramente importava era che Tommaso fosse iniziato al terrore della vita, e allo stesso tempo vendicato per il torto subito. In fondo, Corteccia poteva rifiutarsi. Aveva scelta di farlo. Questo passava nella testa di Michele e questo era un buon ragionamento per le sue vedute. Nient’altro. Il pericolo, la possibilità di essere sparati per un inconveniente come il Corteccia, erano i pericoli che doveva correre. Ma questa soluzione apparteneva all’eventualità perché era riuscito a renderlo immune ed a narcotizzarlo con il panno di lino. Un attimo. Corteccia cadde in un attimo di distrazione tra paura e cocaina, ma forse voleva solo farla finita e abbandonarsi al destino. Dopo averlo narcotizzato, Michele lo adagiò sul letto lungo e rilassato. Lasciò la stanza per risolvere gli altri due problemi.

Katia fu uccisa per prima, con il solito colpo all’addome, perché era, delle due, la più lucida. Gli si avvicinò lentamente, come se avesse desiderato baciarla e prenderla nel salotto. Lei si era insospettita: dalla stanza da letto Corteccia non era uscito, ma poteva fare ben poco perché ormai le aveva cinto il collo. Allora si abbandonò, come un dolce sonno tranquillo prima d’incontrare la morte. Anche lei aveva intuito, prima, che quell’uomo avrebbe deciso il destino di tutti i presenti della stanza, ma non era scappata, per non abbandonare l’amica. O forse aveva l’abitudine a farsi tutto il male del mondo, come se fosse un tributo per il tipo di vita che conduceva. Se fosse stato così, quello sarebbe stato l’ultimo tributo da pagare, il più oneroso, il definitivo. Per l’altra il passaggio fu irrilevante, come l’ennesima sniffata di cocaina, magari degenerata in overdose.
Prima di raccogliere il suo bisonte di caccia e prepararlo per la cottura, gironzolò per l’ambiente, finché l’attenzione non gli fu rapita da uno stereo da camera e da alcuni dischi. Sorrise quando si trovò tra le mani “Born in the USA“ di Bruce Spingsteen e anche se era tardi, la tentazione lo afferrò per la gola.
Preparò una sedia proprio dietro la porta e fece cadere Corteccia come un sacco: le mani penzolavamo quasi fino al pavimento.  
Gli prelevò qualche impronta ed un taglio netto di lama alla gola gli spense la vita; anche lui non s’accorse di nulla.
<<Questo è per il dolore che hai causato al povero Tommaso. Avresti dovuto passare pene peggiori, ma non c’è stata occasione. La morte è un giusto dazio>>.
Asportò capezzoli delle due donne e li ripose in un sacchetto di plastica, per il regalo alla polizia, come se avesse preso della carne dal macellaio.
Il disco suonava “Glory Days“.  






CAPITOLO XIII


8 dicembre 2003.
Uffici del Racis. Roma.




<<Mamma, ti ho chiesto le solite cose! Spediscimi i barattoli di pomodorini, qualche chilo di pasta fresca, impachettata a prova di “poste italiane“, e del vino di Don Giovanni. A proposito, il vecchio ha fatto la vendemmia quest’anno?>>

La donna dall’altra parte ascoltava con l’ansia di chi s’aspettava che l’altro finisse di parlare in fretta, per poter finalmente dire qualcosa.

<<Certo, come ogni anno! Ma lasciami dire……>>
<<Aspetta, un momento, perché voglio completare la lista, altrimenti va a finire come il solito che mi dimentico qualcosa… Allora, dicevamo? Ah ecco, non farti rifilare il novello, ma compra quello dell’anno scorso che è ottimo.  Siamo appena a dicembre e non mi va del vino con un mese di vita. Diavolo, dove ho la testa!  Il pane biscottato……il pane biscottato, stavo per dimenticare il pane biscottato, e come faccio senza di quello, non vorrai che mangi farina ed ammoniaca, che preparano da queste parti. Proprio non posso, mi fa saltare la pressione come un canguro australiano. Bene, mi sembra di aver ricordato tutto>>.
Dall’altra parte ancora un sospiro profondo, ma quasi impercettibile per chi ha orecchie per ascoltare solo le proprie parole, entrò nell’altoparlante della cornetta come un vento caldo e malinconico.
<<Ma quanti giorni pensi di restare? E poi con tanti ristoranti che ci sono a Roma, ti prenderanno per pazzo. Comunque, ora che hai finito, dovrei riferirti una notizia molto importante, e mi occorre qualche minuto di calma>>.
Per Luigi quei preludi cazzottavano di brutto con la parola “calma“.
<<Oh, oh, ma quale calma, cosa devi dirmi? E’ successo qualcosa? Mamma, ti prego non tirarla tanto per le lunghe e arriva subito al dunque! Che cosa c’è, una malattia? Qualche ladro è entrato in casa ieri notte? E parla, mi stai arrostendo come una bistecca!>>
<<Se tu mi concedessi l’opportunità, forse riuscirei a dire quello che ho da dire!>>
Luigi reagì come se si frustasse un cavallo imbizzarrito.
<<Allora lo fai apposta, mi assicuri che vuoi parlare e poi continui a tenermi sulle spine come un carciofo che aspetta di essere mangiato a Pasqua. E insomma, ti prego>>.
Lei, visto il caso, si buttò di getto, e lo fece per davvero, non come modo di dire.
<<Lui viene a vivere con me…..cioè noi due abbiamo deciso che questi ultimi anni che il Signore ci ha donato, vogliamo trascorrerli insieme. E non venirmi a parlare della gente e di “figuracce“ perché la cosa mi tocca molto lontanamente. Ora se vuoi, puoi continuare e dirmi quello che pensi, anche se mi fa piacere il tuo consenso, ma un’eventuale disapprovazione lascerebbe il tempo che trova>>.
Dall’altra parte non arrivò nessuna parola, solo qualche saltuario sospiro che annunciava l’arrivo di un discorso, anche se, però, non ebbe mai inizio. Allora Mimma, forse già cosciente che la situazione avrebbe avuto quell’epilogo, riprese a parlare con l’intenzione di chiudere la telefonata al più presto.
<<Okay, allora t’invio tutto al più presto. L’indirizzo l’ho scritto, non mi resta che salutarti e augurarti buon lavoro. Dalla roba che mi hai ordinato, capisco che la cosa è più complicata del previsto, quindi è quasi sicuro che ci rivedremo tra un po’ di tempo. Non è vero?>>
Luigi sospirò poco o niente, il colpo entrò duro e faceva male. Il male che può fare l’ingresso in scena della persona che sempre è stata presente, nonostante ben nascosta per tutta la vita dall’astuzia e dalla sensibilità della propria madre. Ora entrava in casa, nella casa di famiglia. Dove una volta sedeva il padre, ora bisognava fare l’abitudine di vedere la sua faccia. Era complicato, come lo è sempre stato, in tutti i momenti che si sono verificati tali condizioni. E allora conveniva rispondere come veniva, con quel poco che usciva dalla bocca senza pretendere chi sa cosa, senza ambire che la discussione realizzasse alcun che.
<<Proprio cosi, questa volta è più dura del solito, mamma. Oltretutto, sono costretto a dividere il lavoro con un sacco di teste nuove, e allora mi diventa più complicato. Difficile>>.
<<Meglio salutarci, figliolo. Torna al tuo lavoro. Non voglio rubarti altro tempo prezioso>>.
<<Okay, mamma, ci sentiamo, a presto>>.
Quando ripose la cornetta si accorse dell’ambiente e della dimensione in cui si trovava, perché quando parlava di quell’argomento gli riusciva difficile sentirsi in equilibrio con ciò che gli girava intorno. La vita privata della madre, un argomento tabù.
Era l’ufficio al piano superiore del RACIS di Roma, la tana del Capitano Marchesi, di cui aveva occupato il posto per portare avanti le indagini del caso Scolopendra. E tutto si trovava al punto di partenza perché Corteccia non era l’uomo che si aspettavano che fosse, cioè il colpevole. Evidentemente solo una povera vittima, che per volere del destino si era scontrato con il demonio, lasciandoci le penne. Ma ad ogni tentativo di concentrazione, si presentava con la violenza di uno schiaffo in piena faccia, l’immagine della madre con il suo uomo, offuscando quella di Corteccia e del possibile serial killer. Allora la scrivania diventava una prigione e la stanza un intero carcere da cui evadere al più presto. Bisognava inventarsi del movimento, per distrarre i pensieri.
<<Pronto, il laboratorio? Sono l’agente speciale Febbraio, vorrei disturbare qualche minuto per discutere d’alcuni aspetti della situazione ed in particolare delle amputazioni dei capezzoli che le due donne hanno subito. E’ disponibile il responsabile che si occupa del caso Scolopendra?>>
Ecco quello che ci voleva un diversivo, un camuffamento della realtà; in alcuni casi è l’unica possibilità per andare avanti e continuare a respirare.
Il lavoro, anche se sporco, come quello di un poliziotto, è sempre la soluzione migliore. 
Una voce leggermente infastidita si fece ascoltare dopo qualche secondo, evidentemente quella persona era stata interrotta in momento importante, oppure non ingoiava il boccone, quando doveva riferire con le cariche investigative.
<<Mi dica, sono a sua disposizione>>. 
<<Lei è il medico legale?>> chiese Luigi con la fretta di una lince.
<<Sono Canetta, il dottor Canetta, ci siamo conosciuti l’altro giorno, quando è stato portato a termine il lavoro sulle impronte. E poi di sfuggita quando ci ha presentato il capitano Marchesi. Abbiamo fatto l’immaginabile per risparmiare più tempo possibile, ma da quanto mi è stato riferito la bestia è ancora in libertà>>.
Luigi la tagliò corta, forse anche con un atteggiamento spiacevole che sicuramente fu raccolto come un’esternazione di cattiva educazione.
<<Mi scusi, ma sono costretto ad interromperla perché ho urgenza di sapere alcune cose: i tempi!>>
<<I tempi, agente Febbraio?>>
<<Certo, i tempi.>> riprese Luigi <<M’interessa sapere in quanto tempo sono stati amputati e poi spediti i capezzoli delle due donne: è una notizia molto rilevante per le mie indagini. Capisce?>>
Dal telefono del laboratorio ci fu una pausa che poi si rilevò nelle sue reali vesti d’esitazione, forse perché la domanda aveva poco a che fare con lo studio medico legale scientifico.
<<Agente, mi suona stonata questa domanda. Noi ci occupiamo di scoprire indizi nell’ambito della medicina, se mi può passare questi termini sono molto  “terra terra“, non di tracce che appartengono alla cerchia investigativa….. Che ne so? Se ho capito bene, lei mi chiede di cose tipo codici bancari o postali, di spedizioni, di tracce lasciate con ricevute d’albergo oppure di ristoranti?
E’ questo quello che intende? Perché se è così, affermerei che la domanda mi appare stonata, forse anche più del primo impatto>>.
<<Dottore non la faccia tanto grave.>> riprese fulmineo, ancora, <<Naturalmente non volevo intendere questo, ma ben altro. In quanto tempo ritiene che abbia tagliato i capezzoli e poi compiuta la spedizione, Insomma, voglio saper se li ha tenuti qualche giorno a gustarseli con lo sguardo, prima di spedirli. E’ chiaro adesso?>>
L’aria si faceva tirata e ogni occasione era propizia per alimentare equivoci ed incomprensioni, anche se il dialogo che seguiva, faceva pensare il contrario.
<<Ora è molto più chiara la situazione! Sono in grado di asserire che in meno di una settimana ha fatto tutto. Considerando la ricevuta, che documenta la partenza del pacco la mattina del 26 novembre, penso che le uccisioni e le amputazioni siano avvenute pochi giorni prima. Tra il 12 e il 14 novembre. Naturalmente io sono un medico e non voglio entrare in argomenti fuori della mia competenza, ma mi lasci dire: si muove in modo strano, in modo molto strano. Ha portato i seni a casa, li ha immersi nell’alcool in tutta calma e poi ha preparato i pacchi per la spedizione. “Pacco celere”, con esattezza: un servizio delle poste italiane che in 24/48 ore consegna la merce>>.
<<Ha perfettamente ragione, con quello che ha fatto al Corteccia e alle due donne, ora tutto cambia. Dico che è uscito dai canoni del suo comportamento e questo mi piace come una carota bollita a pranzo. Ha spedito dall’ufficio postale N. 48, in Via Orti della Farnesina. Ora non abbiamo più dubbi che vive a Roma>>.
Il dottore, dall’altra parte, si pose rigido sulle gambe, non riusciva ad identificare quell’ultima frase con tutto il contesto tecnico e scientifico del discorso che si era appena concluso.
<<Come una carota bollita a pranzo, agente Febbraio?>>
<<Certo, è un modo brillante per figurare la situazione! Lei sarebbe soddisfatta di una carota bollita per il pranzo?>> chiese Luigi, con un fare serioso e non certo ironico.
<<Beh, certo non è il massimo una carota per il pranzo…..>>
<<Ecco, >> lo interruppe nuovamente <<ha pronunciato le parole magiche: per tutti noi questa situazione “non è il massimo“. Mi compiaccio, è riuscito ad essere più chiaro di quanto mi sia sforzato io. Complimenti>>.
In effetti, i fatti lasciavano poco buonumore sul campo; in quei giorni aveva raccolto poco, ma non per questo però si sarebbe arreso agli eventi.
Dall’ispezione dell’appartamento era venuto fuori quello che si trovava in superficie, la parte apparente che non avrebbe aiutato la squadra investigativa ad isolare qualche traccia utile sul vero killer. Perché era ovvio che il Corteccia non era altro che una pedina, di quelle che ci lasciano le penne in malo modo.
La situazione non era delle più fiorenti, ma qualcosa si muoveva nella giusta direzione, quella direzione che forzava il killer ad esporsi più del solito, fino a comprometterlo del tutto. Era evidente che qualche affare losco era saltato tra lui ed il Corteccia, che con tutta probabilità non aveva ponderato bene la situazione e quindi non aveva usato le giuste precauzioni che un soggetto del genere richieda.    
 Ora, però, occorreva pensare a qualcosa di nuovo e alla svelta prima che altre innocenti finissero nella ragnatela, ma la mente non era lucida. La telefonata di qualche minuto fa lo aveva sconvolto, come gli succedeva sempre quando si paralava dell’amante della madre. Non era sereno e in più era rimasto solo.
Il colonnello Piovano, dopo il tonfo dell’incursione, aveva preferito seguire impegni d’ufficio, un modo per lavarsi le mani se la stampa avesse cominciato ad azzannare la carne fino ad arrivare all’osso. Qualunque cosa fosse accaduta, avrebbe dichiarato che, purtroppo, non poteva seguire tutti i casi del territorio nazionale in prima persona e in ogni modo avrebbe punito chi di dovere se non fossero arrivati a breve i risultati auspicati. Consuetudine, pura e semplice consuetudine dei pesci grossi quando hanno fame e devono salvare la pelle.
Ma nemmeno il Marchesi e Paolo si trovavano in giro. Allora decise di alzarsi e di cercarli; un modo come un altro per distrarsi, visto che il dialogo con il dottor Canetta non aveva procurato gli effetti desiderati. Allora lo salutò alla svelta.
<<La saluto dottore>>.
<<Ricambio, ma ci vedremo tra poco. Ho chiamato il Capitano Marchesi ed il colonnello Piovano: tra qualche minuto dovremmo incontrarci. Abbiamo i risultati dell’autopsia sul corpo della signora Giacobini ed altre notizie.
Una delle donne si è aggrappata alla pelle dell’assassino, probabilmente il collo, abbiamo effettuato gli esami del DNA, purtroppo appartengono ad un incensurato. Quindi il nostro uomo è ancora un fantasma>>.
<<Non direi. Se dovessimo prenderlo questa prova sarà la mossa per spedirlo in galera per tutta la vita. Perché potremmo usare questa nuova traccia per mandarlo in prigione tutta la vita. Dobbiamo solo stringere il cerchio. Solo stringere il cerchio! Ora la saluto, dottor Canetta, m’incontro con i colleghi e poi ci risentiamo per i particolari della situazione. Grazie>>.

Il corridoio e il susseguirsi delle stanze era un passaggio veloce e incostante, probabilmente perché il quadro di quella giornata appariva incompleto o forse poco soddisfacente per rendersi conto in pieno della realtà.
Un forte mal di testa, inoltre, iniziava a punzecchiare le tempie sempre con più insistenza.
<<Questa maledetta ipertensione si fa sentire, ora divento intrattabile come una tigre ferita. E’ meglio che non incontri nessuno che mi scassi le palle. Ma lo so a chi dare la colpa: è questo diavolo di cibo di merda che ingoiamo tutti i giorni. Grassi, conservanti, e schifezze varie, ma come vuoi stare bene con letame di questo genere? Ho bisogno dei miei pomodorini e del pane biscottato… Ma dove diavolo ho ficcato le pillole per la pressione?
Non riesco a trovarle mai, quando mi scoppia la testa, mentre quando non ne hai bisogno me le trovo sempre davanti, come un pezzo di carta che vale la pena buttare>>.
Si agitava non poco entro le mura confusionarie e bianche, simili a quelle di un ospedale; ogni tanto si udiva lo squillo di un telefono, oppure le grida di una vecchia stampante mentre tirava fuori qualche documento, ma nient’altro.
<<Adesso mi occorrere un bicchiere d’acqua, mica la posso ingoiare come il nocciolo di un cachi, no proprio non è possibile, quello almeno sono sicuro che prima o poi trova la sua strada, ma che cosa ne so di che fine fa un farmaco quando lo ingerisci direttamente?>>
Girava il collo come la luce all’interno del lampeggiante: una volta verso destra e una volta verso sinistra in cerca di una porta aperta per ficcarsi dentro e depredare l’acqua di cui aveva bisogno.
<<Dicono che questo è il centro operativo più efficiente dell’arma dei carabinieri; forse lo è perché è deserto e non ci lavora nessuno dalla mattina alla sera…….. Ah, ah, bella battuta peccato che l’ho sprecata senza la presenza di un testimone>>.
Si arrestò di soprassalto, in fondo al corridoio c’era una porta socchiusa, da dove un filo di luce si distendeva lungo il pavimento del corridoio.
<<Diavolo finalmente una porta aperta, potrò chiedere un poco d’acqua. Non ho voglia di scendere al bar del piano terra solo per un bicchiere d’acqua. A farmi agitare la pressione è stata la cattiva alimentazione di questi giorni, e quella testa calda di mia madre che si comporta come una ragazzina. Ne sono sicuro. Già, si vuole portare il boyfriend dentro casa, ma guarda se, quasi a quaranta anni, devo sopportare tutto questo. Si sono ribaltati i ruoli, i figli che devono tenere a freno i genitori. E’ il caso di dire: “il formaggio sotto e i maccheroni sopra“! Bah!>>.   
Oramai la mano aveva afferrato la maniglia della porta, senza curarsi di bussare prima per assicurarsi di non disturbare qualcuno all’interno della stanza. E quando la porta fu aperta del tutto, gli salì l'impeto di dire:
<<Porca miseria c’è una riunione senza invitarmi! Signori, buon giorno>>.
<<Buongiorno, agente Febbraio. Entri, entri pure, aspettiamo il dottor Canetta per discutere della situazione. C’è l’autopsia della Giacobini, e poi le novità dai rilevamenti effettuati nella casa del Corteccia. Proprio in questo momento eravamo in procinto per chiamarla>>.
<<Certo, certo ed io come illuminato da un’ispirazione divina vi cercavo tutti. Che cos’è una riunione della benamata Arma dei Carabinieri? Tutti presenti tranne gli estranei?>>
<<Anche lei, però, è rimasto a casa qualche giorno per un’influenza. Almeno questo mi hanno riferito. Vero, capitano Marchesi?>>
<<L’agente Febbraio, non si è sentito bene in questi due giorni, signor Colonnello. Mi ha telefonato per avvertirmi ed io ho girato la notizia a lei>>.
<<Visto Febbraio! Quindi noi pensavamo che fosse ancora ammalato. Ora è in forma? Perché dopo queste scenate da telenovela, vorrei continuare con il lavoro, visto che la merda ci sta arrivando fino ai capelli. Perdonate il mio linguaggio, ma ci voleva>>.
In quel preciso istante la porta fu scossa da leggere vibrazioni, poi una voce sottile, ma potente, si fece sentire nella stanza.
<<E’ permesso, signori? Sono Canetta con i miei collaboratori. Ah, ecco qua, ci siamo tutti…tutta la famiglia al completo>>.
Il colonnello Piovano si smosse dalla sua poltrona e con una spallata al Marchesi, si pose al centro della stanza, proprio davanti alla scrivania d’ufficio.
<<Si accomodi, Canetta, che siamo in attesa delle ultime notizie. Allora cominci dall’autopsia effettuata sul corpo della povera signora Giacobini>>.
Il dottore Canetta prese titolarità della stanza, prima si procurò i fascicoli dalle mani dei suoi collaboratori e poi utilizzò il piano della scrivania. Luigi fece lo sguardo di lince e focalizzò l’attenzione su le carte bianche. Marchesi portò alla luce l’uniforme lustra, ed aspettava qualche indicazione che potesse salvare tutto il lavoro che per anni aveva svolto con una abnegazione fervida. Già, ma quale poteva essere quella notizia? Doveva essere qualcosa di negativo per le indagini, insomma il Canetta portava aria fritta. Solo così si sarebbe ammesso che il suo lavoro non era stato superficiale, in quanto si trattava di un osso d’uro, di una mente criminale fuori dall’ordinario. Quindi notizie negative, sconfitta del grande investigatore Febbraio e tutti a dire che il Marchesi non era stato un incapace.
Canetta era pronto, aveva tutta la situazione sotto controllo e la documentazione era ricca nei particolari di notizie utili per chiarire la situazione.
<<Allora, direi, di cominciare con il caso Giacobini. Resta inteso che è stato strangolamento. Ecco come: il soffocamento è avvenuto per una pressione sugli anelli cartilagini e la loro consequenziale disfunzione al momento dell’azione violenta al collo. La trachea fa parte delle vie aeree inferiori insieme alla laringe che la precede e ai bronchi che la seguono. E’ costituita da tessuto cartilagineo, muscolare e legamenti: gli anelli cartilaginei, che costituiscono la trachea, sono incompleti, ciò permette l’espansione dell’esofago al momento della deglutizione. Bene, sul collo della vittima, sono stati rinvenuti residui epiteliali non appartenenti alla stessa. Ma fermiamoci un attimo teniamo, questa caldarrosta al caldo.
Cambiamo scenario: la mattanza a casa Corteccia.
Una delle ragazze stringe il collo del killer, o per essere più precisi di una persona diversa dalle tre decedute. Quindi abbiamo una quarta che ha lasciato la stanza, insomma possiamo evitare di pensare che i tre si siano uccisi a vicenda.
In generale la stanza era piena d’impronte e di altri elementi di naturale inquinamento ambientale, abbiamo isolato qualcosa ma nessun riscontro con l’archivio criminale.
L’identità delle ragazze è venuta fuori come olio su acqua: prostitute, si dividevano tra strada e droga. L’esame stomatologico ha evidenziato un’eccessiva predisposizione all’assorbimento di droghe ed alcool, insomma, nonostante la giovane età, lo stomaco sembrava un sacco pieno di schifezze. Belle fuori e pattumiere all’interno.
Ora colleghiamo i risultati dei due esami: chi ha ucciso la Giacobini non è lo stesso uomo che si trovava in casa del Corteccia la sera della mattanza.
Semplice e preciso. Dall’archivio criminale nessun segnale, quindi si tratta di due persone incensurate>>.
Qualcosa del genere si era sospettato fin dall’inizio, emulazione, oppure due serial killer che potessero imbrogliare le carte a loro piacimento.
C’era silenzio. Il colonnello Piovano si stringeva forte la fronte e guardava gli investigatori in cerca di un loro commento confortevole. Marchesi era soddisfatto. Luigi teneva a succhiare quanto più catrame possibile dalla sigaretta.
<<Allora, signori, aspetto un commento per questi nuovi elementi. Forza, ci sono due assassini, cosa ne pensate?>>
Il colonnello fermò per qualche istante ed accese un sigaro con l’aria di chi aspettava qualcosa di dovuto, e quell’aria pacata, che fin dal primo momento lo aveva contraddistinto, improvvisamente era scomparsa dalla sua faccia.
<<Allora Febbraio, ha da dirmi qualcosa? Resta lì sulla porta come se aspettasse che le compaia Calimero. Purtroppo i tempi dell’infanzia sono passati per tutti ed ognuno di noi deve fare i conti con il proprio presente. Il nostro è tragico, dobbiamo trovare una soluzione a questa maledetta situazione>>.
<<Le dirò, caro colonnello, oggi è stata una giornataccia. Ho ricevuto una telefonata da mia madre che mi ha tolto la tranquillità>>.
<<Qualche brutta notizia?>>
<<No, niente di tutto questo fortunatamente. Ma mi lasci finire e le spiegherò tutto! Ha preso di cattivo animo un mio dissenso riguardo ad una discussione e allora s’è risentita. Ha la testa dura come il marmo, quella donna; proprio come il marmo. Ma tralasciamo e torniamo al nostro caso. Il Corteccia non possedeva un computer. Giusto? Risulta che in quella casa non c’era un computer; ora alla luce di ciò, è da evitare pensare che abbiano organizzato un incontro per passaggio di rete. Termino con il dubbio che quelle quattro persone si conoscessero da tempo. L’assassino, però, conosceva la casa del Corteccia e naturalmente il padrone di casa. Certo qualcuno potrebbe chiedermi perché, con lo stesso principio, non è lecito pensare che l’assassino conoscesse le due ragazze e che loro l’avessero presentato al Corteccia? Perché mi sfuggirebbe il motivo d’invitare anche lui ad una festa e soprattutto perché organizzarla in casa sua.
Ipotizziamo:
Le due ragazze conoscono il nostro assassino, che chiameremo “Ambrogio”, lo conoscono per vari motivi che a noi ora non interessano. Ambrogio ha un problema e chiede a queste due di malaffare di presentargli un amico discreto che può risolvere la questione sporca. Oppure deve comprare cocaina. Ora se cambiate visuale, vi accorgerete che la cosa non funziona. Non regge! Perché? Perché il Corteccia non è né una persona discreta o affidabile, né un persona che possiede roba buona. Non lo dico io ma gli atti giudiziari del passato: risse nei bar, cocaina tagliata con l’aspirina, pedofilia….insomma non si può parlare di una persona discreta. Ergo, è più facile pensare che Corteccia abbia presentato il nostro Ambrogio alle ragazze: immaginiamo ad un festino, sesso, droga e divertimento sfrenato.
Fin qui non fa una piega, se non per un particolare. Ambrogio prende i capezzoli delle due ragazze e l’invia al racis di Roma e al ris di Parma, per dirci che lui c’è, è presente, non perde di forza la sua morsa. Ma di lui abbiamo detto che è uno che tende a purificare e allora mi chiedo perché un’amicizia con un contaminato come il Corteccia?
Mi chiedo e mi richiedo? Chi è Ambrogio?>>
Il colonnello lo fissò dove l’attenzione non si sarebbe persa nemmeno se all’esterno ci fosse stato uno scoppio di una bomba. Marchesi, in tutta sincerità era leggermente divertito da quella disquisizione per certi punti pertinente, ma per altri davvero banale.
<<Quindi il gioco è questo, caro Febbraio; io le pongo una domanda e lei risponde con altre dieci domande, un gioco senza fine. Ho capito bene?>>
<<Non si agiti colonnello. Abbiamo un segnale forte, un errore o forse un gesto studiato a tavolino. Ambrogio è di Roma, perché si muove troppo bene nella città. Conosce Corteccia e con lui ha un affare in ballo, altrimenti cosa ci farebbe in casa sua? Oppure sono semplicemente amici, conoscenti. In più non aveva una macchina è andato a piedi in un posto non troppo sicuro per un turista. Dalle mie parti quei posti li chiamano palazzine popolari, e difficilmente ci trovi uno studio di un avvocato o di un medico. Quindi è di Roma, questo è sicuro.
Ci siamo basati su esami scientifici è va bene, ma ora è il momento dei vecchi sistemi. D’indagini sul campo, andiamo sul posto e mettiamo sotto torchio la gente del posto>>.
<<Lei mi sta dicendo che dopo due anni di lavoro, dopo aver utilizzato la migliore e quindi la più dispendiosa tecnologia, dopo l’intervento dei migliori medici criminali, ora risolveremo la questione con una semplice indagine sul posto. Del tipo “Signora ha visto qualcosa di strano quella sera?”, è questo che sta dicendo?>>
Il colonnello s’era alzato in piedi ed inconsciamente aveva preso a pugni la scrivania, ricoperta dalle carte del dottor Canetta. Febbraio a quella reazione non fece una piega e rispose calmo come l’andatura di una lumaca.
<<In effetti si, ma non chiederei proprio alla signora con il ragù sul fuoco, no quella non ha niente da spartire con la legge. In quei borghi vive gente che ha combattuto tutta la vita e non rischia qualcosa solo per il senso civico. Direi di accostare qualche prostituta del posto e di riempirle le tasche, a sua insaputa, di cocaina. Poi una perquisizione fulminea e via al ricatto: galera o ci dici quello che hai visto quella sera.
Non sono io a farla semplice, vi garantisco che Ambrogio si è fatto vedere, è la sua volontà, altrimenti qualunque fosse stato il motivo della sua visita al Corteccia, non avrebbe commesso tutto quel casino se non con l’intenzione di farsi prendere, e non avrebbe inviato nemmeno i capezzoli.
Quindi, cari signori, le nostre vittime sono state adescate in questa città e poi uccise in giro per l’Italia, forse per confonderci. Almeno questa era l’intenzione iniziale, mentre sono sicuro che quella secondaria sia un’altra. Molta più complessa e subdola: questo ha intenzione di farsi prendere. Sarà uno di quei tipi sballati che ha creato un progetto di morte, un progetto studiato. Punitivo. Mi capite cosa intendo? Identificate bene quello che sto dicendo: se qualsiasi individuo realizza un progetto, di qualsiasi natura sia, qual è il suo desiderio più grande una volta concluso?>>
La stanza rimase in un silenzio forestale, quasi irreale, dove i piccoli rumori di scrivania e di sedia si amplificavano a dismisura.
<<Dio Santo, ma è chiaro! Il desiderio d’ogni essere umano è che tutti sappiano quanto è stato bravo, quanto è stato migliore degli altri. Per tale ragione si lavora tanto in questo mondo, non per se stessi, ma per denigrare i nostri simili. E’ la stessa cosa che accade al nostro uomo: ha realizzato un progetto, o forse è in procinto dell’epilogo, e lascia tracce qua e là per farsi catturare e poi raccontare la sua storia al mondo intero. Sarà il suo giorno del trionfo! Il giorno da super star>>.
Il colonnello Piovano s’era rintanato dietro la scrivania, non più in una posizione di comodo. Il mobile appariva come una trincea per potersi difendere dalle frecce di quel ragionamento apparentemente non chiaro, ma che in profondità non faceva una grinza. A Marchesi era sparito il sorriso dalle labbra e cominciava a plasmare nella sua testa una verità diversa dalle convinzioni radicate. Quindi intervenne d’istinto.  
<<Febbraio, questa è una conclusione semplicistica della storia, perché tante sono finite allo stesso modo. Direi quasi che Freys, se fosse ora tirato in ballo, avrebbe sicuramente scelto qualcosa di più originale. Mi creda resto al quanto stupito>>.
<<Stupito, Marchesi? E di che cosa? Le due donne non sono state uccise secondo il rito. Il rito che fin dall’inizio ha mosso il nostro uomo secondo una linea ben precisa e definita. Improvvisamente tutto è cambiato e scommetto la testa che quelle due si sono trovate sulla sua strada per puro caso. Un incidente di percorso che è stato risolto in modo sbrigativo e definitivo. Mentre Corteccia è stata una pedina utilizzata per chi sa che, e quando divenuto inutile ha fatto la fine che tutti noi conosciamo.
Tanto di cappello, allora. Se ha finito, e penso che sia più di una possibilità, cantiamogli  gli onori del campo di battaglia; gli onori al guerriero che è stato più furbo e forte dell’esercito nemico>>.
Marchesi restò ancorato al suo pensiero per il ragionamento del collega che si proponeva solo dal lato teorico. In effetti, in quei momenti non riusciva ad immaginarsi come nel pratico attuare la cattura.
<<Febbraio, continuo a non seguirla! Catturarlo! Stanarlo! Onori del campo, ma come tutto ciò. In fondo è quello che vogliamo, ma il difficile è stato attuarlo, e penso che anche per il prossimo futuro le cose non cambieranno di molto. Quindi non la seguo, e la pregherei d’essere più chiaro. E se gli interrogatori in strada che lei suggerisce non dovessero portare a niente, se nessuno dovesse dirci niente di nuovo? Saremmo al punto “0”>>.
<<Chiarezza? Quando mi si pongono simili domande, mi scappa da ridere e poi di filare dritto al bagno>>.
Sorrise per qualche secondo, poi un lampo di bonarietà gli  improntò il viso.
<<Bisogna battere a martello continuo sullo stesso chiodo: se ha voluto incontrare Corteccia è perché lo conosceva, quindi il nostro uomo è di Roma. Il motivo per il momento è irrilevante, ma sicuramente legato alla sua condotta criminale. Quindi le donne sono state avvistate in questa città, seguite per il resto d’Italia e poi uccise, ma senza usare un disegno geografico preciso>>.
<<E allora cosa facciamo?>>
<<Scendiamo in strada ed adeschiamo!>>
<<E l’altro, quello che ha ucciso la Giacobini. Andiamo, lei non può restare in tutta tranquillità mentre c’è un altro assassino che emula le gesta criminali del killer Scolopendra>> Marchesi continuava con la sua versione.
<<Secondo il mio modesto parere, il killer di Latina ha portato a termine il compito. Io la vedrei così: la Giacobini era troppo bella e qualcuno che non è riuscito a possederla ha preferito farla fuori. Non si tratta di archiviare la questione per anni, ma solo per alcuni giorni. Finiamo questi interrogatori e poi staniamo quello di Latina. Solo pochi giorni, siamo ad un passo dalla sua cattura è quello che desidera, ha lasciato messaggi dappertutto. Dobbiamo essere uniti, però! Okay?>>
Si guardarono in faccia, un consenso silenzioso e collettivo s’impadronì della stanza.


CAPITOLO XIV


Quartiere S. Rita. Roma.
10 dicembre 2003




Dopo lo squillo del campanello, la porta si aprì solo per metà, lei la usava come una tenda perché il suo aspetto trasandato e provocante, quasi del tutto svestita, non fosse da spettacolo a possibili passanti delle scale. In mattinata non aspettava nessuno, né tanto meno il marito sarebbe rincasato senza avvertire. Avevano un accordo d’animo non di parole; e poi conveniva anche a lui tornare a campo sgombro, perché in caso avesse trovato qualcuno nel suo letto, avrebbe dovuto porre fine a quella recita e prendersi le sue responsabilità d’uomo tradito.
Ma non era il caso. Ragionandoci a freddo non era proprio il caso, perché da quando la moglie apriva le gambe agli altri uomini le cose erano cambiate in meglio, almeno dal punto di vista economico. Il mutuo della casa non era più un macigno e le tasse nemmeno, poi qualche sfizio era passato, come per esempio la macchina nuova. Certo non fu un regalo sincero da parte di lei, ma solo un accorgimento per tenerlo lontano anche il fine settimana, quando era di riposo al lavoro di fabbro. Lei aveva bisogno di quelle giornate per appuntamenti fuori del quartiere, per le notti brave che si concedeva il sabato e la domenica. A lui la macchina, il calcio, qualche centinaio d’euro da spendere senza rimorsi e l’obbligo di badare a Tommaso senza fargli del male.
Il fine settimana, quindi, poteva frequentare night e sale privé dove s’incontravano le persone che contano della “ Roma bene “: politici, attori e artisti vari.
Lei piaceva a tutti, soprattutto per come intendeva il sesso; il viso, in quei momenti, le diventava arrossato, caldo, e quando un uomo le passava la mano sul corpo capiva che quella donna non fingeva. Amava fare sesso, e amava prendere il denaro per vivere al massimo, ma non per riscuotere una paga per le prestazioni. Se n’avesse avuto in quantità, probabilmente, lo avrebbe fatto gratis. 
In fondo aveva sempre desiderato quella vita, il marito e il figlio erano solo un errore di percorso: un incidente! Con il tempo aveva imparato ad amare il piccolo Tommasino, ma non per questo rinunciava ai suoi piaceri.
Si sposò soprattutto per accontentare sua madre, per farla felice, perché tutte le sue amiche lo avevano fatto, e allora si accodò. Ma quando il cancro se la portò via, decise di riprendersi quello che la vita le aveva sottratto con l’unione coniugale. In verità, del fallimento matrimoniale non fu tutta colpa sua; all’inizio cercò di essere una casalinga ed una moglie ideale, ma suo marito si rilassò più del dovuto. Appagato da quello che aveva, la toccava lo stretto necessario, come se oramai sua moglie fosse diventato un oggetto o una serva dei tempi del medioevo. Poi cominciò anche a trascurare la sua persona, limitando al minimo l’igiene del proprio corpo, finché non arrivò allo stato pietoso in cui riversava da anni. Si perdeva tra alcool e un puzzo atroce, che gli partiva dai piedi e terminava con l’alito.  Allora lei non resistette.
Ora, mezza svestita, alle undici del mattino, mentre apriva la porta ad uno sconosciuto, si ripeté dentro l’animo che non aveva niente da rimproverarsi; in fondo nella vita se non sai scalare gli specchi sei abbandonato a te stesso.
<<Salve, abito al piano superiore. Probabilmente ci siamo incontrati qualche volta per le scale, anzi io la ho notata più volte…… Mi scusi se sono così sfacciato, ma ogni tanto mi diletto a preparare qualche dolce fatto in casa. E oggi cosa mi va a capitare ?
Non ci crederà, ma mi mancano due uova per terminarlo. Capisce? Due uova! Non è incredibile?>>
Lei lo fissò come se fosse venuto da un altro pianeta.
<<Un paio d’uova?>> rispose tenendo chiusa la camicia, il giusto per tenere coperte le mammelle.
<<Dio Santo, sono imbarazzato. Capisco che possa sembrare una richiesta assurda, ma è proprio così. Il fatto è che andare al negozio a comprarle mi rovinerebbe l’impasto per il troppo tempo che c’impiegherei. Mi diventerebbe colla! Comprende?>>
<<Ma io non sono in condizioni di ricevere ospiti>> rispose con le prime parole che le passarono per il cervello. Lei lo aveva capito che voleva cosa ben diversa dalle uova. Perché qualche volta l’aveva fissata come un cane in calore: con la bava che gli scendeva fino al bavero.
In effetti, dagli uomini n’aveva ascoltato di svariate, scuse naturalmente. Tutte per arrivare allo stesso scopo: averla. Effettivamente.
Ma in verità non era difficile portarla sotto le lenzuola, bastava una cena e modi da cani bastonati.
L’eccitava che tutti sarebbero stati ai suoi piedi e avrebbero fatto qualunque pazzia se avesse minimamente dato ad intendere che c’era una piccola speranza per conquistarla.
Lo aveva compreso da tempo, di averli ai suoi piedi, e da tempo approfittava di questa situazione per raggiungere i propri scopi.
Quindi perché non approfittare anche di quest’ultima che da qualche minuto aveva bussato alla sua porta?
Non sapeva con esattezza quello che avrebbe desiderato, ma l’eccitava giocherellare con quel bambinone.  Magari allo stesso modo di un gatto con il topo stretto nell’angolo. Allora cambiò atteggiamento improvvisamente.
<<Ma certo dovrei averlo qualche uovo. E poi se non ci si aiuta tra vicini….>>
Aprì la porta del tutto lasciando che l’uomo del piano di sopra entrasse con comodità.
<<Bel appartamento, complimenti. Arredato con vero gusto>> disse una volta all’interno.
Lei camminava per la stanza con la stessa disinvoltura di una donna ben vestita per le strade affollate di una gran città. La camicia che indossava era maschile, d’alta qualità; le scendeva con la morbidezza di una tenda di lino, ma allo stesso tempo con la decisione di un capo rigido e castigato. Solo in apparenza, perché alcune parti del corpo erano ben visibili alla luce di quella mattinata fresca. Tanto visibili, che avrebbero destato l’attenzione anche dell’uomo più freddo e scostante. Le cosce scolpite e ben definite si univano a dei piedi curati, minuti, aggraziati. Le natiche, al movimento, trasferivano le vibrazioni alla camicia, che come in balia di un ballo orientale si muoveva a massaggio della schiena, delle spalle fino a spegnersi sul solino rigido all’altezza del collo. Quaranta, forse alcuni in meno o alcuni in più, questa doveva essere l’età; ma era un fatto irrilevante perché aveva sospeso il tempo e lo avrebbe fermato per il prossimo futuro. Quella bellezza era un suo patrimonio e lo sarebbe stato per chissà quanto tempo ancora. Il bello si burla del tempo.
Una volta raggiunto il piccolo soggiorno, o più semplicemente quella stanza che aveva ricavato dal corridoio, per rendere omaggio ai suoi numerosi ospiti, si girò felina e con la luce brillante negli occhi.
<<Cosa fa mi aspetta mentre cerco l’uovo, oppure ci fermiamo qualche minuto e mi permette di offrirle un aperitivo? Voglio dire, è di fretta?>>
Lui la fissò deciso, ma con tranquillità, sapeva che non avrebbe resistito a lungo perché prima o poi doveva tessere la tela di femmina cacciatrice. Quindi si pose come una preda oramai vinta e decisa ad abbandonarsi all’inevitabile destino, lei aveva un modo aguzzo di condurre il gioco. Una maestra. Ma Michele non era da meno, soprattutto, quando nella testa aveva un piano ben definito.
La scacchiera era sul tavolo, ma i giocatori non giocarono a scacchi. Il gioco prescelto fu la dama il gioco che esprime violenza pura, dove il giocatore deve esternare tutta la sua abilità.
<<Per me è un’ottima idea, sono felice di conoscere più a fondo la madre del mio amico Tommaso. Penso che suo figlio le abbia raccontato che siamo entrati in confidenza e che dopo è nata una vera amicizia tra noi, già da tempo?>>
Rimase un poco scossa, sapeva che il figlio passava pomeriggi lontano da casa, ma non aveva mai focalizzato con attenzione dove e con chi. Fece comunque finta di conoscere bene la situazione per uscire dal forte imbarazzo.
<<Certo ricordo benissimo….>> rispose, quando lo invitò a sedersi su una delle sedie che giravano intorno ad un tavolo di legno smaltato. 
<<Quindi le avrà anche riferito che lo ho aiutato tantissimo con i compiti a casa?>>
Gli occhi si raffreddarono tutto di un colpo e quel sorriso malizioso che aveva, da quando l’uomo era entrato in casa, le sparì improvvisamente. Allora prese ad accendere una sigaretta, dopo essersi seduta anche lei molto compostamente per tenere, per quanto poteva, le cosce ben coperte.   
<<Quindi, se ho capito bene, lei non è qui per l’uovo, ma per farmi presente che ha dato delle ripetizioni a mio figlio>>.
Fece un tiro profondo e deciso, una pausa di qualche secondo, poi riprese immediatamente.
<<Allora mi dica quanto le devo?>>
<<Mi perdoni, signora, ma deve esserci un equivoco! Le garantisco che il motivo della mia visita è solo per avere un uovo. Un semplice uovo. Quello che ho fatto per suo figlio è stato un semplice atto d’amore per un ragazzo che merita tanto dalla vita. Lei non crede?>>
<<Non credo cosa?>>
<<Che suo figlio sia un bambino fantastico e meriti il meglio dalla vita!>>
Rimase impreparata come se fosse interrogata riguardo ad un argomento di cui non aveva mai sentito paralare in tutta la sua vita. E rispose alla meglio.
<<Certo che lo credo, ogni madre lo crede. E’ la cosa più naturale del mondo>>.
<<Strano, non avrei mai voluto essere inopportuno, ma mi sembra che l’argomento le abbia sensibilmente toccato l’umore. Forse non sapeva che suo figlio avesse bisogno di un aiuto a scuola?>>
<<Ma…certo..che lo sapevo.  Tutte le madri sanno dei loro figli e anche io…>>
<<Certo, indubbiamente è come dice. Però, mi perdoni se insisto, sicuramente avrà notato qualcosa di strano nel piccolo in questi ultimi giorni. Sembra come assente. Ha gli occhi spenti, abbattuti. Lo ha notato vero?>>
Quelle domande, anche se il suo tono era gentile e quieto, cominciavano ad avere uno strano e irritante significato d’accusa; intrinseco d’accusa. E lei lo aveva raccolto in pieno.
<<Quello che succede a mio figlio è un problema dei genitori, è stato molto gentile, le devo, però, dire che è meglio se si faccia da parte e lasci che noi provvediamo al piccolo>>.
<<Signora, per l’amore del cielo, la mia era solo una curiosità a fin di bene. Forse è meglio che vada via, non voglio compromettere ulteriormente la situazione. Sono convinto che in altri momenti potremmo spiegarci meglio, evitando argomenti delicati come questi>>.
Si alzò di scatto, ma con modi gentili e educati le prese la mano per salutarla.
<<E’ strano sono entrato in casa sua con un sacco di domande, ma ancora non conosco il suo nome di battesimo. Sulla porta non c’è…>>
A quella domanda avvertì un rossore strano sulla faccia, una sensazione anomala. Eppure era abituata a tenere a bada gli uomini, ma questo riusciva ad irritarla e allo stesso tempo ad intenerirla con i suoi atteggiamenti brillanti.   
<<Ocelli Sandra. Lei invece?>>
<<Michele Matthaus!>>
<<Non è un cognome Italiano. E’ straniero lei?>>
<<No! Ma il nostro paese non è stato solo casa nostra, e poi in verità non mi sono mai accertato da dove venissero i miei antenati. Sono uno che si occupa più del futuro che del passato. Lei no?>>
<<Io cosa?>> rispose confusa.
<<Le interessa più il futuro o il passato?>>
Perché tante domande? Una cappa di nube tossica le toglieva il respiro.
<<Mi….  interessa il presente più…di tutto…..  Si, direi che il presente è la cosa migliore>>.
<<Saggia decisione! Ma non mi doveva un aperitivo? Non si tirerà mica indietro?>>
<<No, no…perché dovrei? Anzi.>>
Spense la sigaretta rapidamente, aprì le gambe con altrettanta velocità e si accorse che lui la fissava proprio in quel punto.
<<Mi scusi ma come le ho detto prima non sono nelle condizioni di ricevere ospiti. Forse è meglio che indossi una vestaglia, non voglio metterla in imbarazzo!>>
<<Imbarazzo? Lei è uno spettacolo sublime e le confesso che non ho nessuna torta da preparare, anzi li odio i dolci e con loro le uova>>.
Si distese sulla sedia e continuò a fissarla con l’intenzione di comunicarle che poteva benissimo restare con quello che aveva addosso.
<<Lei è davvero strano. Riesce a stupirmi in continuazione: si presenta timido, poi mi diventa fatale e finisce con il bugiardo e sfacciato>>.
<<Avrei preferito l’aggettivo affascinante, ma dalla vita non si può avere tutto>>.
Passò oltre il tavolo avvicinandosi molto, chinò la schiena con le mani sulle ginocchia, arrivando con il viso proprio all’altezza dei suoi occhi, ancora seduto nella sedia come un imperatore.  
<<Ma con esattezza cosa vuole da me, Michele?>>.
<<Non lo so! Devo per forza decidere in questo momento? Per i prossimi minuti prendo un aperitivo, che mi spetta di diritto per quante volte mi è stato promesso, poi per il futuro vedremo>>.
Le nacque un sorriso, un sorriso di grazia e di compiacimento, erano le prime parole gentili che ascoltava da un uomo. Da tempo, ormai.
<<Sei sfacciato, e leggermente affascinante>>.
<<Miglioro con il tempo. Allora mi dai questo aperitivo, mi si sta seccando la gola. Subito dopo voglio che accetti un invito a cena, magari ci portiamo dietro anche il piccolo Tommaso. Così non ti passa l’idea di saltarmi addosso la prima sera>>.
Non sapeva quello che le succedeva, ma le piaceva ascoltare quelle frasi da primo appuntamento. E per la prima volta si sentì del tutto nuda, spogliata da qualsiasi difesa. Ma c’era poco da dire o da fare: n’era contenta.
<<Tu devi essere pazzo! Sai quei pazzi che ogni tanto fanno uscire dal manicomio e li lasciano qualche ora per la strada? Entri per un uovo e vuoi uscire con tutta la gallina>>.
<<Simpatica come visione, ma la verità è che non è tanto nuova la cosa o improvvisa. Per la gallina forse si, ma il gallo desidera da tempo….. Comunque scegli tu la sera!>>
<<La sera per cosa?>>
<<Per uscire a cena!>>
<<Devi essere pazzo! Io ho marito e figlio, per me è impossibile uscire con un altro uomo senza che succede il finimondo. E poi mi sembra che tu stia correndo un poco troppo. Non che sei spinto da quello che la gente del palazzo dice sul mio conto?>>
Gli pose il bicchiere con il martini e una fetta di limone.
<<Mi dispiace ma mi manca il ghiaccio>>.
<<Non è importane, farò a meno>> iniziò a sorseggiarlo, ma senza distogliere lo sguardo dal suo corpo.
<<A cosa ti riferisci quando dici “le chiacchiere della gente del palazzo”?>>
<<Lo sai benissimo: che faccio i pompini in casa. Che ne dici ora di tirare giù la maschera e dirmi cosa vuoi con esattezza?>>
<<Ora mi stai mettendo in imbarazzo, un terribile imbarazzo. Incredibile: in pochi minuti l’aria cambia con troppa velocità. E’ meglio che vada>>.
Si alzò di scatto lasciando il martini sul tavolo, le rivolse uno sguardo freddo prima di dirigersi definitivamente all’uscita.
<<Quello che volevo era solo una cena?>>
<<Tu devi essere pazzo. Un pazzo scatenato, mi sei piaciuto all’inizio, forse c’ero anche cascata, ma poi ho scoperto il tuo gioco. Usi mio figlio per arrivare a me, per scoparmi gratis, magari tutte le sere. Ma ti sei sbagliato io sono una puttana che si fa pagare e anche bene.
 Tu cosa fai? Giochi a fare Tom Cruise, credendo che io ci caschi come una pera secca. Bene, ci hai provato, ma hai fatto fiasco come un coglione. La grana, per avermi devi pagare>>.
<<Ha ragione tuo figlio!>>
<<Ragione su cosa, pezzo di merda. Non tirare in ballo mio figlio: lui non c’entra!>>
<<Oh, certo che c’entra. E’ il punto cardine della situazione>>.
<<Che cazzo vuoi dire?>> arrivò al centro della stanza con l’aria irritata, molto vicino al suo muso come se volesse misurarsi.
<<Voglio dire che non lo ascolti, come non ha i ascoltato me, prima, quando ti ho chiesto se hai trovato qualcosa di strano in lui in questi giorni. Per questo motivo volevo invitarti a cena con lui: per parlare. Per farlo parlare, perché gli è successo qualcosa che io ho immaginato per quel poco che sono riuscito a tirargli di bocca. A sprazzi, senza continuità, ma a qualcosa sono arrivato…>>
<<Di che diavolo parli?>>
<<Lo hai visto strano o no in questi giorni? Rispondi prima alla mia domanda!>>
Le diede le spalle, cominciò a correre verso il telefono e quando fu vicina, estrasse una pistola dal cassetto del comodino dove era appoggiato l’aggeggio.
<<Ora mi hai rotto i ciglioni! Meglio che te ne vada prima che ti pianti una pallottola in testa, poi dopo mi preoccuperò di chiamare la polizia. Mi crederanno: dichiarerò che sei entrato con la forza e mi volevi violentare e io per difendermi ti ho spappolato il cervello. Che ne dici di questa stronzata di mattinata?>>
Lui la fissò, abituato ad incontrare la morte ogni minuto della propria vita. E si leggeva in faccia che n’aveva rispetto, ma non paura. No, la paura in lui non esisteva, perché viveva solo per completare il disegno Scolopendra.
<<Allora, coglione, cosa mi dici? Parla! Non restare impalato come un cadavere, perché se continui sarò io a farti freddo come il ghiaccio. Capito?  Freddo come il ghiaccio >>.
<<Cosa vuoi che ti dica? Ha ragione tuo figlio! Ha proprio ragione>>.
<<Questo me lo hai già detto. Io ascolto sempre quello che mi dice!>>
<<E’ per questo che non sapevi che gli davo lezioni private>>.
<<Beh, questo non lo sapevo, ma può capitare. Siamo umani mica macchine>>.
<<Curioso, è la stessa cosa che mi diceva anche mia madre. Quella gran troia, si scopava perfino i miei amici di scuola e tutti ridevano come cani ogni volta che entravo in classe. Anche tu scoperai gli amici di tuo figlio, e tipico di voi puttane malate.
Non si sa perché lo fate, molti dicono perché vi piace, ma io dico perché volete fare del male a noi figli. Per questo ci chiamano figli di puttana. Mai un nomignolo più azzeccato in tutta la storia dell’umanità>>.
A lei tremavano le mani, e la pistola cominciava  a pesare, divenne di pietra: freddo e pesante che lacerava il polso tanto stretta era la presa.
Sembrava che il pavimento la volesse attirare come una calamita. Ma doveva resistere, resistere perché quello era un pazzo, non c’era altra spiegazione e probabilmente intenzionato a farle del male.
<<Stammi lontano, non costringermi a sparare. Cosa vuoi, soldi? Cocaina? Sei in astinenza? Non hai i soldi per comprarla, si vede che sei un povero Cristo: se mi dai il tempo e fai il bravo ne ho un poco nel cassetto, pura. Ti sballerai e poi fai festa>>.
<<Questa è bella. Dovrei fare festa da un mattino all’altro. Guada fuori, bella, ora è mattino, purtroppo per te sarà il peggiore della tua vita perché ho da darti una notizia terribile. Sempre che ti sia rimasto un poco di cuore per quel povero bambino che hai sputato sul mondo>>.
<<Oh, cazzone continui a parlare di mio figlio. Non gli sarà mica successo qualcosa?>>
<<Si, qualcosa di molto grave. Un dramma, una macchia lo seguirà per tutta la vita. E tutta la vita maledirà sua madre perché è stata lei la causa del suo male, della sua agonia. Ora devo decidere casa sarà di te, perché sono io il tuo destino.
 “Da polvere vieni e alla polvere tornerai“>>.
<<Pezzo di merda di cosa stai parlando? Che cosa blateri, non ci perdo la reputazione a ficcarti una pallottola in testa. In quella testa di merda. I giornali parleranno del solito maniaco che tenta di violentare una prostituta nella propria abitazione. I poliziotti la berranno tutto di un colpo, mentre io ne uscirò pulita come una verginella>>.
Lui scoppiò a ridere come un bambino e mise le mani nelle tasche del giubbotto.
<<Ah, ah, di te tutto si può dire tranne che sei una verginella. Non credi?>>
<<Togli le mani dalle tasche molto lentamente! Non crederai di sfottermi con questi trucchi da pivello. So benissimo che hai una pistola li dentro, allora sbrigati!>>
<<Ma quale pistola! Non capisci? Siamo arrivati al capolinea, all’ultima fermata della stazione. E’ ora di scendere e di affrontare la realtà: tuo figlio è stato violentato da un porco dentro casa tua, mentre tu eri fuori a giocherellare col cazzo di qualche stronzo. Quello è entrato, pensava che ci fossi tu, ma vista l’assenza, ha deciso di ripiegare sul piccolo Tommaso>>.
Sandra emise un urlo terribile, nuovo perché nemmeno lei aveva mai udito la sua voce con quella tonalità di sofferenza. Mai in tutta la sua vita. Ed anche se poteva apparire tutto surreale, cominciava a rivedere il faccino di Tommaso di quegli ultimi giorni. Non era tranquillo, non in quei giorni! Restava in disparte come un cane con la rogna, ormai affranto per la sua orribile sorte. Troppa malinconia per un bambino di quell’età, a meno che qualcosa di terribile non lo avesse devastato. Proprio come accadde a lei quando restò in compagnia con il nonno, mentre i suoi genitori si occupavano del ristorante. Proprio allo stesso modo. Le sembrava di rivivere quei momenti sepolti, ma adesso nell’angolo c’era anche il piccolo Tommaso che piangeva e non riusciva a farlo smettere. Il male nella vita non è mai abbastanza.
Quell’uomo proprio di questo parlava: delle più terribili delle cose. Allora si accasciò al pavimento, con la stessa azione di quando si riceve una frustata da una canna di bambù dietro la schiena. Molle e senza collegamenti tra le ossa. La pistola finì in qualche angolo della casa, oramai nulla aveva più importanza. Lui restò un poco sulla porta, respirando tutto quello che sapeva di libidine. Poi disse qualcosa prima di uscire.
<<Se tuo figlio non avesse il coraggio di ucciderti, allora sarò io a farlo, ma sono convinto che non ci sarà bisogno del mio intervento. Anche io ho odiato mia madre per lo stesso motivo, perché pure lei portava sconosciuti in casa, e uno di loro si è divertito a farmi conoscere il mondo fino in fondo.
Non è buffo? E’ la stessa storia di tuo figlio! La stessa cazzo di storia! Ho trovato pace finché le ho tagliato la testa. La polizia la trovò proprio li, in mezzo alle sue gambe. Sono convinto che succederà la stessa cosa anche a te>>.
Uscì lentamente, lasciando la porta socchiusa alle sue spalle.


CAPITOLO XV


22 dicembre 2003. Roma.
Dipartimento del RACIS, sezione investigativa.




Gli uomini chiamati al lavoro si aggirarono per la stanza come formiche alla ricerca di cibo per l’inverno. Persone nuove, facce nuove, ma vecchie nell’anima che attribuiscono agli studi delle statistiche tutte le soluzioni della vita.
Luigi fumava da poco, nell’angolo, tenendo sotto controllo la situazione. Era appena arrivato e temeva l’irruzione del Colonnello Piovano a breve tempo. Con tutta probabilità, il superiore voleva sedersi nuovamente al banchetto considerando l’ultima succulenta portata, sorpresa del menù.
Magari condurre gli interrogatori. Ma c’era la possibilità che avrebbe calcato troppo la mano e il risultato scontato di un effetto inefficace, distruttivo.
Nella rete erano finite più di una decina di prostitute in poco più di dieci giorni, ed i loro avvocati giravano per l’ufficio del RACIS come animali impazziti in gabbia. La cosa puzzava. Era comprensibile che non ti conducessero negli uffici del RACIS solo per qualche grammo di cocaina.

Tutti quegli uomini della burocrazia e della statistica sembravano persi nella boscaglia di una montagna. Le dichiarazioni delle fermate erano messe a confronto come un gioco da tavolo. In quel momento, però, tutto taceva, tranne le stampanti e le tastiere dei computer. La vita delle prostitute era passata al setaccio con la speranza di trovare un collegamento con le altre due ritrovate morte in casa  Corteccia.
Marchesi si avvicinò molto silenziosamente a Luigi, con fare nascosto o semplicemente riservato, difficilmente confondibile con il resto della popolazione di quel luogo.
<<Pensi che si arrivi a qualcosa, per questa strada?>>
 Si appoggiò alla parete con le mani in tasca, mentre ascoltava la domanda del collega con interesse.
<<E chi lo può dire! Siamo nelle mani dei nostri amici ricercatori e dall’esito degli interrogatori, che finora non ci hanno dato buoni risultati. Ora abbiamo fermato altre due donne e speriamo….>>
<<Sai, il colonnello Piovano ha chiamato per sapere le novità su questi ultimi sviluppi. In pratica gli piace la tua idea e con tutta probabilità vuole papparsi completamente il merito. Ma ha già sbraitato per quello che è successo con i precedenti interrogatori. Gli avvocati di quelle donne ci faranno il culo. L’idea gli piace, però>>.
Luigi accennò un lieve sorriso.
<<Mica è fesso. Sa il fatto suo. E poi lui è il capo e può permettersi quello che vuole; in ogni caso non siamo in cerca di gloria, ma dobbiamo lavorare per stanare questa bestia. A proposito mi fa piacere che ci diamo del “tu“. In ogni modo tornando al discorso, se solo rifletti un attimo, ti rendi conto che non è un criminale qualsiasi. In una sola serata ha ucciso un uomo e due donne. Ma questo già lo sai, è il tuo incubo da anni>>.
Marchesi ascoltava con attenzione e aspettava con ansia che Luigi s’interrompesse per intervenire. E quando questi prese l’ennesima sigaretta dal cappotto, n’approfittò.
<<Non è strana la coincidenza che anche con queste due ci fosse di mezzo il sesso, inteso come vendere il proprio corpo? Oh, ma quanto fumi? Ne hai appena spenta una>>.
La solita boccata profonda.
<<Quando l’avremo preso, smetto. Le coincidenze non sono una prova, ma solo una molla che deve spingere il lavoro investigativo in una direzione precisa>>.
<<Sarebbe a dire?>>
<<E chi lo sa! Questa è una domanda da rivolgere ad un veggente>>.
<<Ma tu cosa ti aspetti da questa ricerca, allora?>> riprese con insistenza Marchesi.
<<Lui occupa un posto, un posto dove può studiare le sue vittime, raccogliere le loro generalità e poi colpirle fino a sotto casa. Se siamo fortunati, risulterà anche un quadro psicologico disturbato, quando lo troveremo>>.
Marchesi, allora, prese a ridere di gusto, quasi al limite della decenza, rinnegando in un attimo i modi riservati di qualche momento prima.
<<Santo Cielo, ma tu lo vuoi proprio su un piatto d’argento>>.
<<Non lo voglio io, ma è lui che vuole farsi catturare così platealmente. Questo è sicuro come me e te che parliamo in questa stanza>>.
L’altro nell’ascoltare quelle parole appariva ombrato in viso, deciso a smembrare la tesi del collega con ogni mezzo.
<<Sai quello che stona in questa canzone?>>
<<No, ma ti prego, spiegalo>> rispose Luigi frettolosamente.
<<Con molto piacere; la mia riflessione ha delle basi molto consistenti…..>>
Paolo in quel preciso istante attraversò la sala con una caffettiera americana in una mano e con bicchieri di plastica nell’altra. Il sole delle undici s’intrufolò attraverso le finestre rettangolari all’altezza del soffitto.
<<Aspetta! Prima prendiamo del caffé. Quello del bar mi ha fracassato lo stomaco, stanani. Paolo! Paolo, caffé, per favore>>.
<<Subito, agente Febbraio. Lo gradisce con il latte? Perché se vuole latte, devo tornare nell’altra stanza!>>
<<No, va bene così. Ma che diavolo di caffettiera e questa? Sembra una brocca per il vino>>.
<< E’ quell’americana!>> intervenne Marchesi.
<<Americana?>>
<<Si! Versi un litro d’acqua e duecento grammi di caffé solubile. Arriva a temperatura e il gioco è fatto. Serve a rendere semplice la vita!>> continuò ancora il capitano dei carabinieri con aria di uno che si stesse rivolgendo ad un uomo di un'altra epoca. Conosceva benissimo i difetti di Febbraio e gli piaceva giocare per stuzzicarlo.
<<Rendere semplice la vita? Sarà, ma sembra più bacinella di brodo di lenticchie, che caffé. Da quando è mondo e mondo si prepara con la caffettiera napoletana e…..>>
<<E magari con quella “due tazze”, per non perdere l’aroma. Non è così? Certo che è così, ma come dici tu ci vorrebbe mezza giornata a prepararlo per tutta la compagnia. In questo modo, invece, dieci minuti e tutti abbiamo il nostro caffé>>.
Dopo aver risposto, Marchesi avvicinò le labbra al bicchiere facendo una sorseggiata profonda.
<<Uhm, certo che fa proprio schifo….. Caro Luigi il brodo di lenticchie almeno è saporito, ma questa è proprio schifezza. Dio, è cattivissimo!>>
<<Hai visto, Marchesi. Impara a non contraddirmi. Mio nonno mi diceva sempre: un uomo meno dichiarazioni fa nella vita e meno apparirà ridicolo, quando dovrà ritrattare>>.
Marchesi lanciò un’occhiata turbata di chi ha accusato il colpo, ma senza risentirne delle conseguenze, anzi con un velo di compiacimento successivo che lasciava intendere piena sudditanza.
<<Buona questa, me la devo segnare! Ma sicuro che è di tuo nonno? A me pare un proverbio cinese. Grazie Paolo, puoi servire gli altri, adesso>>.
Paolo si allontanò molto lentamente lasciando i due alle loro discussioni culinarie. Ma ad un certo punto, Marchesi divenne serio e affrontò di carriera il discorso che da qualche tempo gli stava sul groppone.
<<Allora, che ne pensi?>>
<<Che ne penso di cosa?  Ti riferisci ancora al caso? Voglio interrogare le ultime due che hanno portato oggi. Al momento rilevano ancora le generalità, e aspettiamo gli avvocati per non inquinare gli eventuali indizi che usciranno fuori. Un errore di procedura è l’ultima cosa che possiamo permetterci. I tuoi uomini hanno già trovato un anello di congiunzione: quella che abbiamo dentro, Gina Tolga, è stata arrestata con una delle due uccise in casa del Corteccia. Magari, se siamo fortunati, facciamo leva su una probabile amicizia>>.
Marchesi ebbe una pausa che sapeva tanto d’imbarazzo e con lo sguardo ammonì l’altro per il comportamento, a suo giudizio, renitente.
<<Non mi riferivo solo al caso in questione, ma ad altro…>>
<<Okay, ho capito! Ti riferisci alla tua situazione?>>
<< Certo!>>
<<Beh, cosa vuoi che ti dica? Se risolviamo il caso, allora saremo salvi tutti e due. Anche per me le cose non sono idilliache>>.
Una mano si affacciò nel corridoio e dando ad intendere che mancava una decina di minuti per l’interrogatorio, quello che avrebbe condotto personalmente Luigi. Di solito si perdeva un po’ di tempo perché la procedura seguisse il corso tecnico, una sbavatura di comportamento poteva vanificare tutto il lavoro. E un bravo avvocato permetterebbe al suo cliente di volare come una colomba bianca. In più in questa determinata occasione, visto il sesso degli interrogati, Luigi aveva richiesto la presenza di carabinieri donna ad assisterlo.
<<Allora andiamo, capitano, avviciniamoci; hanno, finalmente riempito tutte le scartoffie di rito. Tra qualche minuto siamo dentro. Questa parte mi opprime: avvocati, cavilli, procedure, insomma ne faccio felicemente a meno>>.
<<Beh, è un lavoro che comunque va fatto. Oh, Oh, attento c’è il colonnello che si dirige verso di noi>>.
Di gran passo lo stomaco del superiore era quasi vicino al muso dei due che si erano fermati come pali al centro del corridoio. Il sigaro gli puzzava, e forse anche l’alito, visto che il viso arcigno dominava su ogni altra possibile sensazione di serenità.
<<Che facciamo educazione civica o economia domestica?>>
<<Colonnello Piovano, che piacere rivederla!>>
<<Come no, Marchesi, sono convinto che è felicissimo d’incontrarmi! Come va Febbraio? Ho saputo che finalmente, forse, ha scovato la pista giusta. Le ultime che ha preso vogliono cantare, almeno questo è l’impressione. “Ma non dire gatto se non c’è l’hai nel sacco”. Ergo: voglio assistere agli interrogatori. Perché, me lo lasci dire, non per i miei gradi, piuttosto per i capelli bianchi. Qui i politici premono perché vogliono risultati. Subito! Ora, da quella stanza mi hanno telefonato e forse una di quelle due sa qualcosa, insomma ha visto qualcuno di sospetto. Battiamo martello, allora! Abbiamo commesso fin troppi errori>>.
<<Errori, Colonnello?>> chiese Luigi con un pizzico d’irritazione.
<<Perché, lei vede risultati, Febbraio? Negli ultimi giorni abbiamo avuto un uomo morto e due donne straziate da una violenza bestiale. Me lo lasci dire: per me questo è fare buchi nell’acqua! Per non parlare della Giacobini….. Ma tralasciamo, per favore, altrimenti mi scoppia la testa e mi s’infiamma lo stomaco>>.
<<Non sono d’accordo! E m’interessa poco se lei si mette di muso>> ripreso Luigi <<Ho ereditato una situazione catastrofica e le garantisco che ho fatto tutto il necessario perché……>>
<<Non mi riempia di chiacchiere per favore. Secondo: parli al plurale perché se questa pista dovesse fallire allora sareste tutti e due nei guai. Avete formato una coppia d’assalto e se c’è d’affondare lo farete tutti con la  stessa barca. Intesi, Marchesi?>>
Si rivolse di scatto al capitano che ancora una volta si sentì sotto accusa. E lui con un semplice assenso del capo diede ad intendere che comprese le parole del suo superiore.
<<Bene, mi sarei aspettato un “sì signore”, ma viste le circostanze, posso accontentarmi anche di una risposta del genere. Garantisco, anche a lei Marchesi, che se tutto dovesse andare a puttane non ci sarebbe nessun Santo a salvarla. Le prometto che tutti i nodi verranno al pettine, anzi li cercherò con impegno per metterla sulla Croce. E ora mi segua per un istante!>>
 Marchesi si allontanò da Luigi e seguì la grossa mole del Colonnello in un angolo appartato della stanza. L’omone chiese ai suoi collaboratori di rimanere in disparte, prima di avvicinarsi all’orecchio del sottoposto.
<<Ascoltami attentamente, perché quello che ti riferirò non voglio più ripeterlo in futuro. Vedi quello stronzo con cui parlavi prima?>>
<<Chi l’agente Febbraio?>>
<<Si, proprio quello. E’ uno stronzo, di quelli che ti galleggiano sempre nel cesso nonostante fai scendere l’acqua più volte. E sai perché?>>
<<No, veramente lo conosco da toppo poco tempo>>.
<<Bene, allora te lo spiego io: rompe le palle a tutti. Ti è chiaro adesso? Parliamo di quelle teste di legno meridionali convinti che tutto il mondo sia contro di loro. Persone che hanno cervello ed intuizioni non comuni, che però vogliono osare contro le autorità superiori. Una testa di cazzo, insomma>>.
<<Perché mi dice questo, Colonnello?>>.
<<Perché? Lui mi chiede perché! Senti, ripetimi i tuoi gradi, per favore>>.
<<I miei gradi?>>
<<Certo, i tuoi “cazzo di gradi“>>.
Marchesi apparve smarrito, ma poi come una macchina a comando si riprese e rispose.
<<Sono un capitano dei carabinieri>>.
<<Bene, facciamo dei progressi. E dimmi come pensi di essere arrivato a tanto?>>
<<Beh,… non… lo so…>>
<<Perché tuo padre ed io eravamo grandi amici. Sei un raccomandato, capisci. Quindi, tu mi devi molto e ti do parola che non mi rovinerò la carriera per il tuo vizio della bottiglia. Perdonami se sono così diretto, ma in guerra è meglio non girare intorno al nemico. Già, hai combinato troppi casini con la bottiglia .…>>
<<Ma come lo sa … Voglio dire … è un…>>
<<Un segreto? Allora sei più testa di cazzo di Febbraio. In ogni caso il passato è passato, ora bisogna guardare avanti, e tirare la cinghia>>.
Alle parole del Colonnello si sentì il mondo caricato sulle spalle. Le altre voci erano lontane, eppure tutte venivano da vicino, ma la testa gli divenne come un elemento estraneo alle altre parti del corpo. Probabilmente l’inizio del pianto si fermò all’interno degli occhi, perché sulle guance non sentì nessuna goccia scendere. Rivolse uno sguardo fugace a Paolo che continuava a distribuire caffé a tutti gli altri in sala, seguì un’espressione passiva, nel vuoto. Un istinto irrefrenabile portò, subito dopo, la guardata nella direzione di Luigi che in quel momento ricambiava l’attenzione con aria preoccupata.
Il colonnello era in piedi nella sua uniforme e aspettava una risposta. La risposta.
<<Allora, ti è chiaro quello che ti ho detto? Niente più errori da oggi in avanti, soprattutto niente più iniziative senza il mio consenso>>.
<<Sì!>>
<<Non ho capito bene, ufficiale Marchesi>> affermò con voce autoritaria.
<<Sì, signor Colonnello!>>
<<Ora va molto meglio. Quindi, archiviata questa questione, torniamo al problema Febbraio: perché trattasi di problema serio. Quell’uomo mi è stato imposto da persone molto in alto per risolvere il caso “Scolopendra”. E va bene, ho ubbidito anche io da buon soldato, ma quello mi sta sulle palle e va eliminato, sia con esito positivo, sia negativo delle indagini.
In poche parole il merito di un possibile successo sarà da attribuire al nostro corpo, mentre, se si dovesse verificare un disastro, dovremmo scaricare tutto sulle sue spalle. E’ chiaro il ragionamento?>>
<< Ma… >>
<<Niente ma! Questo non è un dibattito o uno scambio d’idee. Sono ordini! Inappellabili! Prendere o lasciare. Se ti rifiuterai di collaborare, ti spedirò nella melma talmente in profondità che non rivedrai più la superficie. Ma diavolo, fermati un attimo, e pensa alla tua famiglia, alla tua carriera. Puoi ancora riprenderti tutto. Allora?>>
Marchesi alzò lo sguardo dal pavimento e deciso come un toro prima d’incornare, rispose al Colonnello.
<<Farò il mio dovere di soldato>>.
<<Ottimo, ragazzo. Bentornato nel mondo delle persone intelligenti…..>>
Una voce secca e decisa interruppe le congratulazioni del superiore verso il soldato. Tutto era pronto per l’interrogatorio.
<<Il soggetto per il primo interrogatorio è pronto>>. Arrivava dalla stanza in fondo alla sala. Luigi non si curò minimamente della presenza del colonnello e si avviò prima di tutti.
<<Buon giorno! Sono l’agente speciale Febbraio; avvocato, signora, con un po’ di calma risolveremo la situazione immediatamente. Bene, lei si chiama Gina Tolga, vero?>>
Nel frattempo arrivò anche il colonnello ed il capitano Marchesi. La porta si chiuse e gli occhi della donna assorbirono tanta paura che le parve che si fossero gonfiati come patate.
<<Dicevamo: lei è Gina Tolga, vero? Ho brutte notizie per lei! Dall’ispezione dei nostri carabinieri è venuto fuori qualche grammo di cocaina di troppo, proprio nel suo marsupio. E’ suo questo, vero? Già, qualche grammo di troppo…>>
<<Mi scusi agente Febbraio, sono l’avvocato Risi Mario e rappresento, naturalmente, la signora Gina Tolga, che è accusata in questo disdicevole equivoco. Bene, a me sembra troppo, insomma troppe autorità per qualche grammo di cocaina e poi l’interrogatorio all’interno del RACIS. Voglio dire, forse per il bene di tutti potremmo trovare un compromesso: voi ci dite quello che cercate realmente e noi magari…>>
Luigi aveva il naso storto, anche la bocca seguì la stessa direzione e un velo di disappunto si prese la faccia, lasciando pochi attimi per interpretare qualcosa di diverso da un’arrabbiatura.
<<Con tutto rispetto, egregio avvocato, la legge non si tratta. Noi abbiamo qualche grammo di cocaina a discapito della sua cliente, lei niente, cioè niente che le possa permettere di trattare. Che ci siano autorità o meno a presidiare quest’interrogatorio è poco rilevante per la sua difesa.
Ora io arrivo al dunque: conosce questa donna?>>
Era la foto di Katia Righello, nella casa del Corteccia, proprio in quella cornice di morte. Spaventosamente, una cornice di morte.
<<Capisco! In questo stato è difficile identificarla. Le faccio vedere la sua faccia prima che incontrava la tragica fine. Eccola. Allora la conosce?>>
La donna fu colta da un colpo, spavento, forse, oppure un brivido nel rivedere una persona che conosceva bene in vita e ora in fotografia morta. Evidentemente la prima foto l’aveva sconvolta meno della seconda, il sangue e la confusione non permettevano di rilevare precisamente i lineamenti di Katia.
<<Dalla sua reazione penso che lei la conosca. E penso che sappia anche che fine ha fatto. Terribile, non trova? Oh certo bisogna farsi i fatti propri e non rischiare niente, tornare a casa e mettere la testa sotto la sabbia, mentre un bastardo va in giro a tagliare i capezzoli delle donne nel suo quartiere. Perché anche lei vive nel quartiere Campitelli ed è proprio lì che tra 12 e il 16 novembre, Katia è stata uccisa insieme con un’altra povera ragazza. Lei conosce Katia, non sia reticente: è stata arrestata due volte con lei il che ci fa…..>>
<<Mi scusi, ma questo non è un interrogatorio nella norma. La mia cliente è stata fermata per possesso di stupefacenti, è di questo che dobbiamo rispondere. Non capisco a cosa vuole arrivare. Andiamo signori, a che gioco stiamo giocando, non è possibile. La mia è un’obiezione formale, esigo delle spiegazioni>>.
L’avvocato s’era alzato in piedi di scatto, lasciando cadere i fogli che reggeva. Aveva avuto qualche dubbio fin dal primo momento, ma ora ogni incertezza s’era dileguata. La situazione era complicata. E in pochi secondi aveva associato quell’interrogatorio all’orribile mattanza che tutti i giornali della città avevano messo in forte luce in quei giorni. Un rossore gli coprì il viso che abitualmente mostrava agli inquirenti per dimostrare calma e tranquillità. Lui, più freddo della sua cliente, aveva riconosciuto subito sia il nome, Katia Righello, sia quella faccia.
<<Si calmi avvocato. Sono il colonnello Piovano ed in modo o in un altro arriveremo a quello che ci serve. Non siamo qui questa mattina per perdere tempo, è poco ma sicuro>>.
L’avvocato tornò alla sedia e come quando s’era alzato per dimostrare disappunto, allo stesso modo si sedette per calmare i nervi. Fu un gesto incondizionato e naturalmente istintivo.
Gina Tolga scrutava tutti, ma non riusciva ad immagazzinare nessun’immagine; girava le pupille da destra a sinistra, giù e su per la stanza, alla maniera di un faro in piena notte in mezzo al mare. Sperduta in un momento, in luogo che non appartenevano alla sua vita, anche se non si poteva parlare, in ogni modo, di vita soddisfacente.
<<Si l’ho visto, quella maledetta sera, è sceso dalla casa del Corteccia….giù per le scale….>>
<<Ferma non dica niente che possa nuocerle. Io protesto per una condotta simile. Lei minaccia la mia cliente e la tiene sotto pressione per qualcosa d’estraneo alla sua……>>
<<Stia zitto avvocato Risi, qui non si scherza, lasci parlare la sua cliente o la faccio cacciare>>.

Luigi aveva perso il controllo. Il controllo che più volte s’era ripromesso di portarsi sempre appresso per non finire nelle solite trappole dei guai, che più volte aveva incontrato nella sua carriera professionale. Marchesi lo tenne per le spalle, lo tirò a sé cercando d’attirare la sua attenzione; poi gli parlò con fare formale e professionale.
<<Febbraio stia calmo, cerchiamo di ragionare. Cacciare l’avvocato? Calmo, calmo…..>>
<<Lasciami, non vedi che vuole togliersi il peso dallo stomaco!>>
Una spinta violenta scaraventò Marchesi contro la porta, proprio sotto gli occhi increduli del colonnello, che avrebbe voluto dire qualcosa, magari obbiettare e forse prendere a pugni in faccia quel rozzo di oltre cento chili, ma poi annusò qualcosa di significativo nelle intenzioni della donna. Allora lasciò Marchesi a se stesso e mentalmente sposò le intenzioni di Luigi.
<<Allora, togliti questo peso che ti opprime. Ormai sappiamo che eravate amiche: due più due fa quattro, chi hai visto scendere da quelle maledette scale? Dimmelo!>>
Lei piangeva e tremava, ma allo stesso tempo la carne desiderava vendetta per la morte dell’amica. Ricordò il sorriso malefico in quella terribile sera. Era il diavolo, una faccia che succhiava la vita degli altri esseri viventi, così lo ricordava. Sputò via tutto e le parve di rinascere.
<<Io lo conosco è…..  Certo, ho visto qualcuno la sera che li hanno ammazzati. Ho visto uno dell’amministrazione dove mi portano quelli con i soldi, quelli che non si accontentano della macchina. L’amministrazione di un albergo.
<<Un albergo?>> chiese Luigi
<<Il Nazionale, quelli con i soldi pagano bene e amano la comodità. E’ abbastanza lussuoso, lì ci vanno anche un sacco di coppiette clandestine a... avete capito, ma gente con la grana.  L’albergo è fine e camuffa bene sia situazioni equivoche, che attività pulite. Ci fanno meeting, congressi, ospita anche ragazzi in gita. Lavorava nell’amministrazione, si chiama Michele. E’ lui! Quello che ho visto scendere quella sera. Il 13 novembre. Lo ricordo benissimo, perché Corteccia mi doveva dare della roba, ma non è mai venuto all’appuntamento>>.
<<Che vuol dire lavorava?>>ancora Luigi.
<<Che da qualche mese non l'ho più visto... l'ho rivisto giorni fa, quando dal Corteccia!>> 
<<Ma certo…porca puttana. Ora ricordo. Su una delle agendine delle vittime c’era appuntato A. N.: Albergo Nazionale. La vittima aveva segnato l’incontro clandestino con le iniziali dell’albergo! Chi, non ricordo chi, però!>>
<<TESAURO ADRIANA, morta il 11/03/2002. Ritrovata a Borgo San Lorenzo, Firenze. Nata a Firenze, ed ivi residente, il 23-07-1966. Laureata in giurisprudenza lavorava per uno studio legale. Quel giorno aveva un appuntamento; era scritto tutto puntato sull’agendina.  “A.N.” ore 9.00 per l’esattezza!
Ormai conosco i documenti a memoria. Ha ragione Febbraio, quel A. N., quasi sicuramente, vuol dire Albergo Nazionale. Ha fatto bingo. La testimonianza di questa donna è sufficiente per chiedere un mandato di perquisizione>>.
Marchesi era tornato in vita e rincuorato aveva inteso che la strada era quella giusta. Questa volta era quella giusta. Ora la mano sulla spalla di Febbraio era amichevole e carica di compiacimento per l’ottimo risultato. L’avvocato s’era schiacciato sulla sedia. Inconsapevolmente quel dubbio di una gran grana ora s’era materializzato. Si trattava di qualcosa di grosso.
<<Conosci il cognome di questo Michele?>> chiese Luigi alla donna in preda ad una crisi di pianto.
Lei non rispondeva, allora rincarò la dose.
<<Andiamo. Solo un piccolo sforzo, il cognome. Dammi un diavolo di cognome>>.
<<No, non lo so! In quest’ambiente non ci parliamo per convenevoli. Che cosa crede che ci sia il baciamano? Ma se lei prende quel bastardo, potrei riconoscerlo tra mille>>.
<<Allora, chiamate i disegnatori: ha un quarto d’ora per dettare un identikit e contemporaneamente fatele vedere alcune foto segnaletiche, magari siamo baciati dalla fortuna. No, questo non ci servirà, gli esami delle impronte, ci hanno sempre dato esiti negativi….. insomma fate secondo prassi, mentre io ed il capitano Marchesi ci facciamo dare un mandato. Gina, non mi deludere: cerca di ricordare i lineamenti di quell’uomo. Il disegno della sua faccia ci potrà essere molto utile, probabilmente, ci sono ancora in ballo le vite di molte ragazze. Se mi aiuti, ti giuro che lo sbatto in galera per tutta la vita>>.
 


Furono all’Albergo Nazionale in pochi attimi; forse impiegò più tempo il magistrato Gonfalonieri a firmare il mandato che loro a trovarsi sul posto.
Luigi entrò di forza con il distintivo tra le mani e contemporaneamente fece strada per i suoi uomini. Poche parole.
<<E’ tutto sotto sequestro. Carabinieri e anche polizia… tutto insieme, insomma. Chi è il direttore, avanti forza abbiamo bisogno dei registri e di tutta la documentazione contabile dell’albergo. Diavolo, allora, chi è il capo? Naturalmente, nessuno lasci questo posto>>.
<<Sono io il direttore, ma che succede? Oddio, ma qui siamo tutte persone perbene. Lavoratori. Ma che diranno i nostri clienti, lei mi fa uno smacco che ci vorranno anni per toglierlo. Sono io il direttore… vi prego…venite nel mio ufficio, troppa cattiva pubblicità. Abbiamo scolaresche dalla Campania, dal Veneto e visitatori da tutto il mondo; Dio mio, siamo sotto Natale, qui è pieno. L’ albergo è pieno, ma che sarà mai successo?>>
Luigi viaggiò a passo veloce, forse anche troppo, tanto da sorpassare lo stesso padrone di casa ed arrivò alla scrivania dell’ufficio.
<<Allora, come si chiama lei?>>
<<Mi chiamo Giovanni De Clementis, ma che succede? Qui non c’è droga, né altro di sconveniente. Maresciallo, qui vivono un sacco di famiglie, la prego non ci rovini!>>
<<E chi la vuole rovinare? Io qui sono per un affare: la lascio in pace in cambio di qualche informazione….>>
<<Febbraio, ma che modi sono questi di condurre la situazione….>>
<<Mi scusi colonnello, ma è arrivato il momento di condurre la situazione con il giusto manico! Abbiamo perso fin troppo tempo. Siamo agli sgoccioli, non so spiegarle il motivo, ma adesso ho paura che il tempo sia finito. La prego, mi lasci fare a modo mio>>.
Il colonnello non annuì o tanto meno rispose qualcosa d’affermativo, ma lasciò correre, oramai tutta la situazione sembrava una roulette russa. A Luigi parve più che sufficiente per continuare con il suo lavoro.
<<Allora, amico, il gioco è questo: io ti faccio una domanda e tu mi rispondi, preciso preciso. Tu mi dai una cosa a me ed eviterò di chiuderti bottega>>.
<<Maresciallo, ma allora la cosa è seria, mi faccia chiamare il mio avvocato. Non posso rispondere senza la presenza del mio avvocato>>.
<<Senti, questo è il mandato del magistrato, siamo in regola, il problema è che non abbiamo tempo da perdere. Se me ne farai sprecare inutilmente, sarò molto cattivo con te, tanto da prendere questo mandato e fartelo arrivare nello stomaco, ma, ti garantisco, non dalla bocca. Sono al punto che non ho niente da perdere.  Non c’è bisogno di tutti questi canali burocratici, il tempo è poco. So benissimo chi ci viene, e che fitti camere a chi vuole farsi una scopata di alto rango, se rivoltiamo il pentolone esce tanta merda che ci soffocherai solo per la puzza. Allora, vogliamo sapere se da te lavora o lavorava un certo Michele. Questo è un disegno della sua faccia>>.
<<Diavolo tutto questo casino per un imbecille. Certo, lavorava, ma era un mezzo demente, insomma un timido. Che cosa avrà mai potuto fare per scomodare tutto l’esercito?>>
<<Nome, cognome ed indirizzo. Marchesi, forza, prendi appunti>> riprese Luigi.
Il direttore s’era seduto su sedia del suo ufficio, con le mani congiunte e poi strette dall’interno delle cosce.
<<Michele Matthaus. Con l’indirizzo ho avuto problemi, l’assegno della liquidazione m’è tornato più volte indietro. Ricordo molto bene la questione. Qualche mese prima di lasciare il lavoro si era trasferito in una zona popolare di Roma, il quartiere S. Rita. Si è fatto un gran parlare di questa sua decisione, lui qui ha una stanza come chiunque che fa questo lavoro. Ha cominciato come portiere, poi lo ho trasferito in amministrazione. Si sceglie di andare via, quando si può comprare un buon appartamento, ma dove vive ora è una bettola…>>
<<Perché Michele se n’è andato?>>
<<Non ne ho idea, mi ha piantato da un giorno all'altro il marzo scorso!>>
<<Il motivo?>>
<<Glielo ho detto, lo ignoro. Era un buon dipendente, permessi e fissa delle donne a parte>>.
<<Che vuol dire?>>
<<Ogni tanto spariva... chiedeva un permesso e per giorno non avevo sue notizie per settimane>>.
<<E le donne?>>        
<<Michele era un "piacione", dotto', qui vengono un sacco di donne sole in viaggio per l’Italia, qualcuna ogni tanto trovava compagnia, ma alla fine restavano sole e Miche' aveva sempre una “buona parola” per loro>>.
<<Intendi dire che se le portava a letto?>>
<<No questo no, lui usava le parole. Insomma era un tipo strano, parlava di religione e dell’amicizia con il parroco del quartiere S. Rita. E poi che doveva aiutare un bambino….ricordo ancora il nome Tommaso. Lo aveva sempre in bocca: Tommaso di qua e Tommaso di là, povero Tommaso con la mamma così. E diceva sempre questo, in quei giorni non ci davamo peso perché era sempre stato un tipo strano, trasandato, assente. Gli facevamo tenere il cane per compagnia sul retro dell’albergo. Ora che ci penso che fine avrà fatto la bestia? Difficile tenerlo in casa, era grande di stazza. Ma ora che mi vedo venti carabinieri in albergo, insomma quella stranezza m’insospettisce, qui devi avere paura degli scemi! E poi con quello che si sente in televisione. No dottò, non voglio nemmeno sapere quello che ha fatto, ora le prendo l’indirizzo dove gli ho inviato la liquidazione e buona notte. Io ho aiutato lei e ora lei aiuta la mia baracca. Era questo il patto vero? E’ vero che qui si fittano stanze per poche ore al giorno, ma io non so quello che ci facciano dentro. Lo posso immaginare, ma niente d’ufficiale. Vede dotto’, la prostituzione di una volta non c’è più e nemmeno l’ansia per i tradimenti non è più quella di venti anni fa. Ora una donna in carriera viaggia e si scopa chi vuole, senza insospettire il marito. Questo per dirle che io so benissimo cosa significa la parola pravicy e ognuno può fare quello che vuole. Nel mio albergo non c’è l’usanza di spiare nelle stanze dei clienti, quindi le ho dato tutto l’aiuto che potevo. Ma se lei insiste a dire che il mio albergo sia un bordello, allora dovrò chiamare più di un avvocato per difendermi. Ho quaranta dipendenti e una storia di mezzo secolo, insomma non è facile intaccare la nostra credibilità>>.
<<Certo, ma un’occhiata ai registri devo darcela altrimenti le tue resteranno solo chiacchiere, mentre io ho bisogno di prove. Abbi un po’ di pazienza, i miei ragazzi ti tratteranno bene. Se i riscontri saranno soddisfacenti, allora….>>
Luigi si tirò Marchesi ed il colonnello in un angolo per illustrare al meglio la situazione e quindi le prossime mosse da mettere in gioco.
<<Okay, ora ci serve un altro mandato: quello per una perquisizione in casa di questo diavolo di Michele Matthaus. Certo che l’antipasto non è male: da come l’ha descritto sembra più pazzoide di una cavalletta. Insomma all’apparenza docile e poi sotto, sotto ti esce il regalino. Sono quasi convinto al cento per cento che sia lui. Ricordate cosa recitava uno dei suoi bigliettini?
“Tutte hanno abitato la stessa casa“. E’ una metafora tutte sono passate per quest’albergo: scommetto che i nomi delle vittime sono nei registri>>.
Piovano si avvicinò forzatamente, parve che una grossa foglia di cactus gli si fosse attaccata al sedere con tutte le spine ben spinte nella carne.
<<Complimenti, Febbraio. Ora non ci resta che andare a casa di questo bastardo, raccogliere ogni prova impeccabile e farlo fritto, ma qui non va rivoltata merda. Questo è un posto rispettabile e quello ha usato la parola privacy non senza un motivo, non calchi più la mano. Sa il fatto suo l’amico, io non voglio più grane!>>
<<Non si preoccupi! Si fidi e mi lasci condurre il gioco a modo mio. Sarà fatto un lavoro con i fiocchi>>.
Piovano si chiuse in qualche attimo di riflessione, ma poi come convinto da chissà quale verità superiore, si strinse il petto e fece intendere l’assenso per una collaborazione morale con Luigi. In fondo a lui interessava solo rimanere a galla e quando incontrava idealisti come Febbraio, allora li faceva giocare con piacere, perché in caso di sconfitta avrebbero pagato tutto loro.
<<Okay, faccia come vuole. E’ inutile ricordarle che abbiamo l’acqua alla gola e non possiamo permetterci di fallire. Ma visto che è ancora la sua mano di poker, se la giochi come desidera>>.
Luigi abbassò le pupille e contemporaneamente il capo.  Al Colonnello sembrò esauriente come risposta e prese a dare ordini.
<<Signori, controlliamo per bene i registi. Sapete quello che dovete cercare. Nella camera dove ha abitato il soggetto, facciamoci andare la scientifica, anche se sono passati troppo mesi, magari c’esce fuori qualcosa: un bigliettino, un’agendina, programmi per computer. Mi raccomando massimo rispetto per il posto dove vi trovate, non dovrà essere un albergo, ma una chiesa. Il direttore è stato gentilissimo e voglio che ricambiate. Ricordate che l’albergo è pieno per Natale, non create panico. Marchesi, lei vada con Febbraio, appena pronto il mandato vi raggiungerò sul posto. Prima che andiate, però, Luigi, vorrei dirle un’ultima cosa. In privato>>.
Quasi si nascosero in un angolo. Marchesi rimase in disparte e con un magone al cuore.
<<Oggi è la giornata dei colloqui privati, come può ben notare. Prima di andare voglio chiarire un’ultima volta e più dettagliatamente la sua posizione in questo gioco>>.
<<Mi dica pure, Colonnello>>.
<<Ecco io ho bisogno di una testa, uno scalpo, un trofeo. Se lei non dovesse esaudire il mio desiderio con quella dell’assassino, dovrei accontentarmi della sua. E mi dispiacerebbe da morire. Chiaro?>>
<<Lei è esplicito come sempre, Colonnello>>.
<<Mi fa piacere che c’intendiamo alla perfezione. Ora vada, il tempo non è un nostro alleato>>.
Luigi e Marchesi si lanciarono di corsa nel cortile dell’albergo e con la stessa velocità in una macchina dei carabinieri.
<<Che si fa allora?>>
<<Che cosa si fa allora? Per prima cosa dobbiamo ragionare con la massima semplicità>> rispose Luigi con la solita luce di fuoco negli occhi tipica di momenti interessanti.
<<Vale a dire?>>
<<Voglio raccontarti un aneddoto semplice e attinente al nostro caso: quando ero piccolo mia madre mi preparava una brodaglia con sangue di cavallo e passato di verdura; uno schifo. La versava in una grossa ciotola, prima di abbandonare la cucina per le sue faccende domestiche. Quando tornava e fissava dentro quella ciotola arrivava a semplici conclusioni.
E mi diceva: “Se è piena vuol dire che non hai mangiato! E’ inutile che mi dici il contrario”>>.
<<Ma che diavolo c’entra con il nostro caso?>>
<<C’entra, c’entra, perché in questa storia qualcuno ha ancora la ciotola piena, ma ha dichiarato di aver mangiato. Le conclusioni semplici, molte volte, sono sempre sotto il naso, anche se noi amiamo cercare quelle più difficili>>.
<<Continuo a non capire>> riprese Marchesi.
<<Dimmi, sei completamente sicuro che questa storia sia stata del tutto stata sepolta dalla stampa?>>
<<Beh, ci abbiamo provato, ma qualcosa a livello locale è sfuggito. E’ molto difficile evitare che un giornale di provincia non si occupi dell’assassinio di un paesano. Nei piccoli paesi, solo le cose che non si fanno, non si sanno. E’ un detto vecchio come il mondo, ma è la pura verità. E poi è arrivata anche la stampa nazionale come un ciclone>>.
<<Quindi, qualcuno potrebbe sapere o immaginare che c’è un pazzo che va in giro a squarciare addomi e gole di donne professioniste, magari con il vizio della prostituzione?>>
<<Con tutta probabilità, si. Senza considerare una fuga di notizie dai nostri uffici; anche questa è un’eventualità da non sottovalutare! E poi di un’emulazione n’abbiamo già parlato.
Ma dove vuoi arrivare?>>
<<Proprio come sospettavo! Il bastardo ha inzuppato il biscotto quando gli si è presentata l’occasione>>.
<<Ma, Febbraio, di che parli?>>
<<Del nostro amico che va affermando che la ciotola è vuota, mentre è piena fino all’orlo>>.


CAPITOLO  XVI


Quartiere S. Rita. Chiesa Dell’Assunta.
Roma, 22 dicembre 2003.




Padre Camillo, tutti i pomeriggi della settimana li trascorreva insieme ai ragazzi del Rione Santa Rita. Nato nel nord del Piemonte, da oltre dieci anni si era trasferito nella capitale, dove, dal primo giorno, aveva iniziato un lavoro di reintegrazione dei ragazzi difficili. Le sue pretese non erano di rilevante interesse per la maggior parte della popolazione locale.
Insomma non chiedeva tanto; giusto qualche presenza in più nella sua chiesa la domenica e sporadiche iniziative di beneficenza. Ai facoltosi commercianti fece richiesta d’alcune panche nuove e candelabri in ottone di fabbricazione molisana, che secondo il suo giudizio erano lavorati da braccia umane e non dalle macchine, quindi frutto del Signore.
Alle donne non aveva mai chiesto lavori di pulizia per la chiesa, anzi all’inizio lo avevano visto al mercato comprare secchio, scopa e stracci. Poi, di passaggio, molte lo notarono curvo sulle mattonelle Sante. Allora qualcuna di loro si offrì volontaria, spinta soprattutto dalla forte convinzione che un uomo di Dio non dovesse sciacquare mattonelle e candelabri. Inoltre le altre dei rioni vicini non avrebbero parlato con benevolenza del fatto. Donne che lasciano le cose di casa ad un prete, non sono donne, avrebbero detto le malelingue.
E allora si diedero da fare.
Quindi padre Camillo andava bene a tutti: chiedeva poco e s’intrometteva nella vita privata del suo gregge con altrettanta discrezione. A lui bastava lavorare per i ragazzi perché aveva la ferma convinzione che quella fosse la sua strada. Con pari convincimento sapeva che nessuno lo avrebbe ricordato per questo. In fondo era giusto che fosse così: il primo insegnamento della madre Chiesa era che ognuno doveva rimanere al proprio posto.
Il mercoledì pomeriggio, inoltre, s’incontrava con Michele che aveva conosciuto da qualche anno e si era offerto per lavori di manutenzione della chiesa. Padre Camillo aveva notato il suo modo freddo di trattare gli altri, ma riteneva che fosse per timidezza e un congenito carattere chiuso. Il ragazzo lavorava sodo e s’impegnava perché l’edificio clericale, segnato dal tempo, non crollasse sulle proprie fondamenta.
L’intonaco delle pareti si staccava con frequenza costante. Le tubature di metallo lasciavano acqua nelle mura allo stesso modo di un’arteria spezzata all’interno di un cervello umano. Allora quel figlio inviato dal signore, scavava delicatamente con un piccolo scalpello e rattoppava la perdita con un moderno spezzone di plastica. Passava l’intera giornata come se fosse un sacrificio dovuto a qualcuno, a qualcosa di superiore.
Il prete però con lui si accontentò solo di averlo come operaio missionario, capiva che un dolore forte gli era entrato nell’anima, anche se ogni tanto cercava di scalfire quella corazza, ma sempre con scarsi risultati.
<<Duro il lavoro, vero?>> gli diceva per attaccare filo.
<<Va fatto, padre! Altrimenti tutto cade a pezzi>> si limitava a rispondere, come se quelle parole fossero una concessione grave.
<<Certo, ci sono cose che nella vita vanno fatte. E’ proprio così, ma non per questo bisogna trascurare le altre cose che ama Nostro Signore.
Molte volte queste sono sepolte nel nostro cuore e cercano di uscire, invece le paure dell’anima le tengono sepolte>>.
Ma Michele, a capo chino, continuava a tirare di martello e più quelle parole si presentavano docili, più colpiva forte la testa dello scalpello.
<<Non capisco cosa mi vuole dire. Ho imparato solo che un tubo rotto va cambiato e una parete inumidita va pitturata>>.
<<Non c’è dubbio, però ci sono cose più importanti nella vita>>.
<<Più importanti delle cure per la casa di Dio?>>
<<Non è questo che intendevo, Michele!>>
<<Se non è questo, cosa allora?>>
Padre Camillo scrollava le spalle e accennava un sorriso di quiete.
<<Niente, caro figliolo. Continua pure il tuo lavoro, magari riprenderemo questa discussione in altre occasioni>>.
<<Come vuole lei, padre>>.
Tornava con capo chino al suo impegno continuando a recitare la parte dello sprovveduto, e ogni cosa tornava alla normalità.
Più volte Padre Camillo aveva chiesto perché solo il mercoledì, e con la stessa insistenza lo aveva invitato a partecipare anche all’incontro domenicale.
In quella giornata, mentre recitava la messa, continuamente il prete sperava d’incontrare quello sguardo, ma l’esito era sempre negativo. E più il tempo passava, più cresceva la curiosità.
Poi alla fine il carattere comprensivo, forse anche remissivo, spingeva il prete a pacare il suo cuore agitato e si abituava a quello strano comportamento di Michele.
Oramai qualche anno era passato e tutto sembrava che seguisse un percorso stabilito e di tranquillità. Nel rione Santa Rita ognuno scorreva entro argini di normalità e Padre Camillo s’era convinto che non conveniva forzare troppo la mano, altrimenti le pecore si sarebbero smarrite in modo definitivo.
Ma quella normalità era destinata a svanire come fumo. Molti avrebbero puntato il dito contro il destino, invece per Michele tutto era da collegare al volere dell’uomo.
Il Dio, che gli altri veneravano, era un mezzo per mettersi alla prova, perché amava sfidarlo. Lo faceva entrando nella sua casa, portando male sotto i suoi occhi. E in quei mercoledì si presentava e aspettava che Lui si vendicasse o lo punisse, ma questo non avveniva mai; allora lo immaginava come un Essere codardo, privo di qualsiasi principio e pari opinione riversava anche sui preti. Perché Michele frequentava la chiesa di padre Camillo già da prima di trasferirsi nel quartiere Santa Rita. E ogni volta che aveva una vittima da consegnare alla Regina Scolopendra, poi si rivolgeva al Dio degli uomini.
<<Cosa c’è, hai paura di me. E’ per questo motivo che non ti presenti al mio cospetto. Ho ucciso tutte quelle puttane, ma tu ti sei rintanato. Bene, allora colpirò qualcuno molto più vicino a te: il tuo prete Camillo>>.
Era deciso: la prossima vittima sarebbe stata il prete, la prossima e anche l’ultima perché oramai si sentiva il fiato della polizia sul collo. Poi, punto secondo, la sua missione era giunta al termine. La regina Scolopendra aveva avuto i suoi sacrifici e l’erede, Tommaso, era stato iniziato.

<<Oggi è l’ultimo giorno che mi recherò alla chiesa>> disse in quel mercoledì di dicembre al suo cane.
<<Mio caro Caligola, il compito che mi è stato assegnato è giunto al termine. La regina Scolopendra ha ricevuto i sacrifici in suo onore. Ora toccherà al piccolo Tommaso continuare in futuro il volere della Regina. Ogni sacerdote, una volta compiuto il proprio compito, deve lasciare al novizio le cure della Regina. Sette, dovrà uccidere sette donne come le ho ucciso io. Ma ho anche fatto di più, ho dato un collegamento, un anello che le avvicina l’una alle altre. Chi continuerà, dovrà estrarre dalla gola e dall’addome il frutto perché la Regina resti in vita e si cibi a sazietà. Spero che una volta privo di vita, mi accoglierà tra gli eletti; ma non preoccuparti porterò anche te con me, potrai restarmi accanto per l’eternità. Nella tua scodella c’è una piccola quantità di cicuta, proprio lo stesso destino che ho riservato al pesce rosso.
Potremmo incamminarci verso un futuro migliore, di là dalla cattiveria dell’uomo: in vita mi hanno ridicolizzato per quello che ha fatto mia madre. Mi sono sempre sentito come se fossi il colpevole del suo comportamento. Ma ora basta! Io iniziato qualcosa, poi ci sarà Tommaso e ancora un altro, ci moltiplicheremo per pulire il mondo dalla cattiveria.
 Tolse lo sguardo dalla ciotola di Caligola e guidato dall’eccitamento si diresse al piccolo armadio dell’altra stanza. Le ante si reggevano con cerniere di ferro, forse usate alla meglio e senza mestiere, perché le tenessero attaccate a tutto il legno portante del mobile. Si ficcò con la testa e il corpo curvo per qualche istante, poi ne uscì soddisfatto e felice con un quadro di buone dimensioni tra le mani.   
<<Eccola, la mia Regina, la nostra regina. L’unica guida pura, casta, bella ed invincibile, come il veleno che vive nel suo corpo>>.
Michele continuò a guidare la tela dell’insetto lungo la stanza: l’accompagnava come un danzatore avrebbe guidato una dama in un ballo morbido. Tutto il resto non gli apparteneva compresa l’agonia del povero cane che iniziava a soccombere al veleno. Poi esclamò.
<<Possiamo permettercelo, vero? Tu mia Regina, riceverai il potere che ti spetta ed io sarò il tuo fedele servitore. Possiamo permettercelo, di essere così potenti, più del Dio che governa gli uomini. E ora lo sfiderò! Già, lo porterò sul campo della sfida.  Gli ucciderò il suo prete Camillo, prima, e poi nasconderò la tua immagine in quella chiesa. Ho lavorato tanto per ricavare un posto sicuro e asciutto all’interno di quelle vecchie mura.
Sarai al sicuro, mia Regina, prenderanno me e saranno convinti di essere arrivati alla conclusione. Ma non è così, vero? >>
Abbracciò con vigore al quadro e prese a ridere di felicità, mentre il cane lo distraeva con un gemito d’agonia risolutivo.
 <<Oh, Caligola, beato te, cominci ad entrare nel regno della Regina. Deve essere una sensazione meravigliosa. Hai le lacrime agli occhi perché? Ho capito! Ho capito! Hai paura che la Regina resti all’interno di quelle mura per sempre? Oh, piccolo caro, sei preoccupato? Ma non sarà così, te lo assicuro, perché sarà il piccolo Tommaso a farla rinascere e donarle nuovamente la luce della libertà. Già, troverà la strada della sua vita, le indicazioni che lo faranno divenire un uomo forte ed invincibile: continuerà quello che io ho fatto in onore della nostra Regina. Continuerà a fare giustizia, a rendere questo mondo meno merdoso. Ora stai meglio, vero?
Ora, che sai che Lei non sarà sepolta per sempre. Ti senti meglio, vero? Sei ancora preoccupato perché pensi che il ragazzo non la porterà alla luce?
Ci andrà, ci andrà, puoi stare tranquillo e morire in pace. Lo farà perché ha tanta rabbia dentro, quella rabbia che nasce dal dolore. Il dolore vero, incancellabile, che ti resta per tutta la vita. Proprio lo stesso che mi colpì, quando ero bambino; il dolore che solo l’umanità può imprimere>>.
In quel momento, aveva gli occhi di fuoco, probabilmente il ricordo lo aveva trasportato lontano nel tempo. Quel periodo che da sempre aveva cercato di dimenticare invano, ma che, invece, era sempre restato presente accanto a lui.
<<Proprio così, Caligola, il male non appartiene al diavolo, ma all’uomo, all’umanità. Solo quest’infido essere è capace di violentare un cucciolo della sua stessa specie, nessun altro animale al mondo si macchia di un gesto così malefico. E’ quello che ho fatto accadere al piccolo Tommaso, così sarà pronto a servire la Regina Scolopendra, come lo sono stato io. Ora è abbattuto, ma quel groviglio di rabbia che cova nel suo stomaco, un giorno, esploderà come una bomba, e allora sarà lui a fare del male. Sarò io a guidarlo>>.
Stanco e provato si lanciò di peso su una sedia, con forza e passione tenne sempre stretto il quadro al suo petto, gli parve di avvertire calore.
Il cane si era adagiato a terra, delicatamente, privo oramai d’ogni scatto nervoso, come una coperta di lana aggrovigliata su se stessa. Ma negli occhi gli abitava ancora una luce, la luce di chi, anche se privo di ragione, riesce a capire che quei momenti sono particolari; mai vissuti prima di allora.
La morte, evidentemente, è comprensibile anche per gli animali. Le palpebre si unirono l’una all’altra, e a tale avvenimento, una pace scese su tutto il suo corpo. La catena che lo aveva tenuto legato al termosifone per tanto tempo, parve spezzarsi come un filo di cotone.
Michele gli rivolse un ultimo sguardo di compiacimento e soddisfazione, poi ancora alla sua Regina.
<<Ora vado dal Prete e lo uccido ai piedi del suo Dio. Quando sarà fatto, ti nasconderò in posto sicuro, ma non ti preoccupare, non resterai sepolta per molto tempo, perché il giovane Tommaso ti ridarà la luce>>.

Padre Camillo aveva disdetto tutti gli impegni quel mercoledì, come da tempo faceva perché voleva dedicarsi pienamente alla cura della sua pecorella Michele. Aveva ricevuto per qualche minuto Sandra Ocelli e suo figlio per decidere la data della comunione del piccolo nel mese di giugno. I due si trattenevano in chiesa, mentre il prete aspettava Michele in sacrestia. Molte volte si era arreso lasciando che si dimenasse nei suoi ragionamenti errati, ma da qualche tempo aveva deciso, nuovamente, che il suo aiuto sarebbe stato più cospicuo ed intenso che qualsiasi convinzione errata vivente nella testa dell’uomo.
Quel pomeriggio Michele era in ritardo, cosa strana perché sempre patito della puntualità.
Sulle scale della chiesa aveva incontrato nuovamente il piccolo Tommaso, accompagnato dalla madre, anche se a stento il ragazzo lo aveva riconosciuto, ancora provato dal forte trauma.
<<Stai lontano da mio figlio, pazzoide, altrimenti chiamo i carabinieri>>.
<<Perché non lo fai? Dovrebbero arrestare prima te per quello che fai in casa, per tutti quei schifosi che ti porti nel letto di tuo figlio>>.
Il bambino lasciò la mano della madre e corse giù per le scale con i palmi delle sue ben schiacciati sulle orecchie, anche se non poté non ascoltare la voce suadente e autoritaria di Michele, che gli entrò nel cuore come una sentenza.
<<Tommaso!>>
Il bambino si voltò con le lacrime agli occhi, voglioso di riascoltare quella voce, forse tenebrosa, forse malefica, ma l’unica che avesse un tono d’amicizia.
<<Lascialo andare, maledetto!>> riprese ancora la madre.
Michele non si curò minimamente delle intimidazioni della donna, e ancora si rivolse al bambino, con un sorriso quieto che non aveva contorni sforzati o artefatti, ma erano leali e sentiti.
<<Caligola, ci ha lasciati. Se io non dovessi tornare, pensa tu al suo corpo e ricordarti, che la chiave è sempre dietro la figurina di Vieri. Mi raccomando!>>
Fu l’ultima volta che i due amici s’incontrarono.
La donna tirava il piccolo con forza e il desiderio di tornare a casa in fretta non la rendeva consapevole che le gambe del piccolo non riuscivano a reggere il suo passo. Tommaso avvertiva sudore tra la mano della madre, ma non disse nulla o chiese qualcosa, in fondo erano giorni che non apriva bocca.
<<Muoviti, Tommaso, voglio arrivare a casa il più presto possibile. Sento gli occhi di queste vecchiacce da dietro le finestre. Tu no? Vecchiacce fatevi i fatti vostri: sono andata in chiesa e allora? Mio figlio deve fare la comunione. Vecchie troie! Dimmi qualcosa! Hai fame? Sei contento di quello che ti ha detto padre Camillo?>>
Il piccolo dava passo, ma le gambe proprio non si adoperavano, come non ce la faceva il cervello di ascoltare gli stramazzi della madre. In testa entrava la faccia di Corteccia, l’odore del sudore e poi l’oscurità.
Pochi ricordi ed un senso di viaggio in una dimensione non reale. La madre, il papà, il quartiere, tutto estraneo.
Poi vide i bambini che lo fissavano, mentre giocavano al pallone e scopriva che non aveva paura di quello che pensassero, anzi si fermò e tirò la madre.
<<Che c’è ora? Vuoi giocare con quelli là? No, lascia, sono cattivi>>.
<<Aspetta!>>
Tommaso andò loro incontro e si fermò ad una decina di metri senza parlare.
<<Guardate. Tommaso “figlio di puttana”. Che fai non parli? Cosa vuoi? Vai via, altrimenti ti prendo a calci>>.
Lui li guardò fisso, senza paura, come sfida, come proposta di scontro o forse solo come un suggello di promessa. Una promessa di vendetta.
Poi sirene dei carabinieri fransero tutto. Sandra chiamò suo figlio e lo attanagliò nuovamente per la mano. Fuggirono via ed arrivarono a casa di corsa.
Erano molti, molti carabinieri, dappertutto, e allora tutto si poneva ad incastro nella testa della donna: l’uomo con la faccia da diavolo, quello che aveva detto su Tommaso.
I militari cercano proprio chi lei immaginava. Li ascoltava, mentre facevano domande agli inquilini del palazzo. Aveva paura, ora, che si rivolgessero anche a lei. Il desiderio primario di parlare era scomparso.
Perché i carabinieri erano proprio in cerca di Michele, le domande inequivocabili, precise su di lui. Giravano intorno, chiedevano, isolavano tutto. Furgoni speciali e uomini con tute bianche e valigette in mano. Tutti avevano compreso che si trattasse di qualcosa di grosso.
La paura ghermì il cuore di Sandra, che si difese rifugiandosi dietro la porta di casa.

Padre Camillo lucidava i candelabri poggiati proprio ai piedi dell’altare, più vicini al grande e smaltato Crocefisso, sostenuto proprio al centro della piccola navata. Santa Rita era ritratta in varie tele, tutta decorata da cornici in oro; gli altri Santi occupavano edicole marginali della chiesa, molto vicine alla porta d’ingresso. Odore di cera e incenso invadevano l’olfatto di chiunque entrava nel luogo. 
Non era una chiesa famosa a Roma, e raramente si scorgeva un turista preso a fotografare. In quel posto ci veniva la gente del posto, a piangere e a redimersi proprio quando oramai era con l’acqua alla gola.
Il prete viveva, come il solito, la giornata del mercoledì tra le sue faccende di casa. Aveva aperto la sacrestia completamente, liberandola da porte e finestre. Ogni mattina quella stanza aveva bisogno d’aria perché il fumo delle canne entrava fino nelle tende e nell’intonaco delle mura. I ragazzi n’approfittavano, perché lui la sera era sempre impegnato con le coppie che volevano incontrare il matrimonio o per altri doveri d’ufficio. Come le cresime, le comunioni e i ragazzi ci andavano giù forte con il rotolino di droga, abbandonandosi poi nella casa di Dio al rilassamento del corpo e della mente.  
Il prete faceva finta di non sapere per strategia, dal suo piccolo modo di vedere le cose, concludeva che era meglio che fumassero sotto il suo naso e non tra i pericoli della strada. Con tutta probabilità sarebbero passati ad altro, nella giungla dell’asfalto.
Pensava ai suoi ragazzi e continuamente rivolgeva un pensiero al suo ospite del mercoledì, provando una gran sorpresa per l’insolito ritardo. Effettivamente era passata l’ora dell’arrivo di Michele da qualche minuto.
<<Quel ragazzo ci tiene alla puntualità; è una persona veramente a modo, anche se isolata in un mondo tutto suo>> rivolgendosi al grande Crocefisso, dopo aver abbandonato la sacrestia.
La chiesa a quell’ora non era troppo illuminata, ma le finestre in alto raccoglievano intense figure geometriche di sole. Quelle del lato destro primeggiavano perché si fronteggiavano in modo diretto con la luce. Le altre raccoglievano un chiarore più fioco, ma con forza tenace riusciva lo stesso a scendere fino alle figure dei Santi poste nella parte inferiore della Chiesa.
Padre Camillo pensava che la casa di Dio fosse proprio quella, non le artificiose colonne, soprapposte da altrettante cupole, costruite dall’uomo. L’opera di dio era il fascio di geometrie che tutta la natura creava per delimitare quel tetto semplice e potente. E il fatto che fosse una giornata di sole, era irrilevante, perché anche con maltempo sarebbe entrata luce.
Poteva tenere sempre la testa rivolta verso l’alto, perché amava riscontrare quella potenza, la decisione di firmare la potenza e allo stesso tempo il suo amore, d’Essere superiore e padrone del mondo. Era il Signore, e lui, umile prete, aveva deciso di seguirlo.
<<Padre Camillo, che fa? Guarda la polvere e le ragnatele del soffitto?>>
 Il prete distolse lo sguardo dal vuoto e con movimenti lenti portò il collo in posizione corretta.
<<Oh, caro Michele, cominciavo a chiedermi, quando saresti arrivato. Di solito, sei sempre così puntuale>>.
 Michele entrò del tutto nella chiesa, l’ombra del suo corpo lunga e snellita dalla luce esterna, si compattò grossolana e tonda proprio ai suoi piedi, quando fu completamente all’interno dell’edificio.
<<Per qualche minuto di ritardo non sarà mica la fine del mondo. Da una parte ho letto: “Anche in Paradiso, probabilmente, ci saranno stati dei miglioramenti”.
Ciò vuol assicurare che non è stato un luogo sempre perfetto come adesso. Non crede, Padre?>>
<<Una frase consistente di contenuti. Chi l’ha scritta dove essere un osservatore molto attento. Ma quello che m’incuriosisce sapere è se ti senti perfetto come il paradiso, Michele>>.
Scelse una panca dell’ultima fila per sedersi e non lo fece come un gesto di riposo, ma sembrava più un’azione di dominio; una presa di potere. Mentre il prete rimase in piedi vicino all’altare. Allargò le braccia lungo tutto lo schienale, tenne le spalle ben dritte perché la testa fosse rigida e alta.
<<Lei ama giocare con le parole, come la vita ama prendersi gioco degli uomini>>.
<<Caro figliolo, ho l’impressione che non sei venuto per i soliti lavori di manutenzione del mercoledì>>.
<<Effettivamente no, proprio non direi che è questo il motivo della visita. E’ il mio ultimo mercoledì, il nostro ultimo mercoledì. Non abbiamo più tempo per girare intorno al problema, è il momento di affrontarlo. Dobbiamo prendere coscienza dei nostri ruoli, così distanti, così avversi. Mi creda, Padre, quando le dico che in fondo io la rispetto, ma il suo problema è quello di servire il padrone sbagliato. Il padrone falso che infanga l’uomo con menzogne e stupide promesse, che……>>
<<Figliolo ma cosa dici? Ti ricordo che sei nella casa di Dio e…..>>
<<Non m’interrompere, prete, parlo in nome della mia Regina e merita rispetto>>.
Era in piedi, dritto, con le gambe che tremavano dalla rabbia e il viso tirato come se fosse tenuto in trazione fino alle orecchie.
<<Michele, calmati! E’ evidente che qualcosa ti ha turbato, ma sono qui per aiutarti con sincerità. L’amicizia che ci lega ci sosterrà a trovare l’abbraccio del Signore>>.
Padre Camillo aveva la voce tremante, la paura iniziava il percorso all’interno del suo corpo. L’abitudine nel trattare con persone ostili al “Credo”, in quel momento gli parve una sensazione sconosciuta, come se fosse il suo primo battesimo di un infedele. Non era il primo, ma semplicemente il più difficile di tutta la sua vita.
Quell’uomo, era sempre stato suo sospetto, viveva nella gabbia del male che lo rendeva apparentemente docile, invece permetteva di far crescere un animale malefico all’interno del suo cuore. Ora era chiaro e il prete cominciava ad avere paura.
Gli occhi sono lo specchio delle sensazioni, ma soprattutto la fotografia del terrore: i suoi, in quel momento, erano un ritratto esplicito di tale sentimento, che aumentava di pari passo al continuare di quella voce in fondo alla chiesa.
<<Ho provato a perdonarti, mi sono affaticato per ricercare un lembo di salvezza, ma non è stato possibile, perché non riesci ad abbandonare le tue stupide convinzioni. Sei fermo, di pietra, con quei discorsi che da millenni ingannano ed indeboliscono l’umanità. Sai perché? Comprendi perché sono ingannevoli? Perché vi è facile perdonare! Non fate altro che dispensare perdono e tolleranza, solo perché non costa niente. Punire invece è sofferenza. Imporre regole e farle rispettare, questa è la strada perché ci sia rispetto tra tutti gli uomini, ma è la più costosa, la più compromettente. Invece no, con una benedizione non vi fate nemico nessuno.
“Porgi l’altra guancia”, non è stata mai più pronunciata vigliaccata tale al mondo>>.
<<Figliolo, ma … questi … sono insegnamenti … di fratellanza…>>
<<Silenzio, schiavo della menzogna, non ho finito! Il tuo Dio ha sempre assolto mia madre senza mai condannarla, e lei, senza pensiero, ha continuato a portare uomini in casa. Toccavano le mie cose con il loro corpo lurido, pisciavano fuori dal cesso, sulle mattonelle dove sarei passato io a piedi nudi. Hai mai calpestato la piscia di un porco bavoso che è stato a letto con tua madre? No, non penso, perché se fosse stato così, non mi verresti a parlare di fratellanza e perdono. Ma se tutti voi l’aveste fermata con una punizione, lei avrebbe smesso. Sai, ho sempre pensato che mia madre fosse caduta in sonno profondo e la troia, che viveva in quella casa, era una strega che aveva preso le sue sembianze>>.
<<Ti prego, di non bestemmiare e non dire parolacce in questo luogo>>.
Padre Camillo aveva raccolto tutta la concentrazione necessaria perché la sua voce fosse convincente. Però il ghigno stampato sul viso dell’altro, non garantì per il buon esito dell’intento, tanto che pensava alla sua ultima possibilità: fuggire.
Intanto i fasci di luce, nonostante fosse passato da poco mezzogiorno, come risucchiati, tornarono verso la fonte d’origine, lasciando che una penombra sinistra avvolgesse tutta la chiesa.
<<Questo luogo….questo luogo sarà teatro del tuo sacrificio e custodirà l’immagine della mia regina Scolopendra, all’interno di una di queste mura>>.
<<Ma tu devi essere pazzo!>> 
Padre Camillo lasciò cadere gli stracci e prese a correre verso una delle porte laterali, quella a sinistra dell’altare, quella che con facilità lo avrebbe portato in strada.
<<E’ inutile che scappi, Prete, ho chiuso tutte le porte. Nessuno ci ha fatto caso, perché pensavano che fosse un lavoro di manutenzione delle serrature. Siamo rimasti soli, accompagnati dai nostri Dei, ora vedremo quanto è forte il tuo e se sarà in grado di salvarti>>.
Poi saltò con entrambi i piedi sulla panca che poco prima aveva usato per sedersi.
<<Ti canterò una canzone che amo ascoltare quando sono in vena di decisioni importanti!  Ora comincio, ascolta prete: “Taglia la testa al gallo, se ti becca nella schiena. Taglia la testa al gallo. Come un illuso io vorrei che fosse vero, che ogni mano che apre il tuo ventre fossi tu a partorirla! E allora, taglia la testa al gallo se ti becca nella schiena… Taglia la testa al gallo se ti becca ……..”
Tu sei il gallo che mi ha beccato la schiena, devo tagliarti la testa. Vieni galletto, è ora di versare sangue, non c’è scampo, devi essere pronto, e soprattutto non pensare ad un motivo in particolare, perché non c’è. Diciamo che ti uccido per il semplice fatto che modifichi sempre le file delle sedie da sette a otto posti e a volte arrivi anche a dieci. Dieci sedie dove massimo se ne possono posizionare sette. E’ una vergogna, ed è un buon motivo per scannarti. Perché questa volta sarà un lavoro di sangue ben fatto. Già, non sarai pasto per la mia Regina; lei è sazia e soddisfatta, ora sei la mia preda, per il mio gioco. Oppure per quella troia di mia madre, per le file di sette o per il tuo Dio bugiardo: scegli tu, per quanto mi riguarda devo scannarti>>.
Corse lungo il piccolo viale di marmo canalizzato dal corteo di panche. Aveva il coltello nella mano ben preso, lo stringeva e gli occhi si appannavano per la forza rabbiosa che dallo stomaco saliva fino in gola.
Il respiro di Padre Camillo era richiamo appetitoso.
Oramai si era arreso prima di tentare qualsiasi via di fuga. Rannicchiato in un angolo ascoltava i passi veloci del suo boia, perché aveva compreso che l’uomo non l’avrebbe mai risparmiato, nemmeno se avesse pianto pietà. Era la sua ora. Aveva sempre candidamente parlato della morte come un passaggio di sollievo, ma vederla in faccia e così violenta, lo rese di pietra. L’altro stava per entrare in quella piccola stanza. E lui lo aspettava senza distinguere più le sensazioni: paura, rabbia, rassegnazione. Tutto si confondeva.
Quando la sua faccia di fuoco gli fu davanti, provò finanche un senso di sollievo, o almeno gli parve che quella fosse la percezione.
Michele lo fissò crudelmente lavorando di mestiere con il coltello nella mano. Cattivo, lo era, e lo fece ben vedere. Lo fece intendere.
Poi pronunciò le ultime parole che il Prete ascoltò nella sua vita terrena.
<<E’ curioso che non ci sia Dio che tenga! Non c’è Dio che possa evitare ad un condannato a morte di pisciarsi addosso prima di crepare>>.
Passò gli occhi al liquido caldo che usciva dal corpo del prete schiacciato a terra nell’angolo e gli salì di ridere di gusto.
Il condannato aprì gli occhi per l’ultima volta, poi si chiuse la testa tra le mani e pianse.
<<Piangi? Non c’è altro da fare!>> gli rispose alzando il braccio in alto a raccogliere quanta più forza possibile per colpire.
Prima di riportarlo giù con violenza, riprese a cantare.
<<“Allora, taglia la testa al gallo se ti becca nella schiena…”>>


CAPITOLO XVII


Roma, 22 dicembre 2003.
Quartiere S. Rita.
Appartamento di Michele Matthaus.




La scientifica lavorava lentamente, ma con un’attenzione che rasentava lo smodato. La porta fu aperta accuratamente, evitando qualsiasi scossone. Luigi restava in un angolo con un groppone sullo stomaco, davvero la cosa l’aveva pensata facile: trovarlo in casa ed arrestarlo sarebbe stato un colpo di fortuna troppo grande. No, bisognava ancora valutare, penare. Se avesse lasciato il paese? Certo, c’era un identikit e poi la foto rinvenuta dall’anagrafe, ma era tardi per consegnarli a tutti i punti di dogana. Insomma, se avesse voluto, avrebbe avuto tutto il tempo per scappare da là del mondo. Chiamò Marchesi in un angolo e pianificò in pochi secondi la situazione.
<<Okay, qui l’esperto sei tu e va bene, quindi è inutile che io rimanga ad ammirarvi mentre usate spazzolini e pinzette. Metto su posti di blocco e cazzate varie, con il benestare del colonnello, poi faccio qualche domanda ai vicini di casa, magari esce fuori qualcosa.
Una donna è molto difficile, non penso che abbia una donna, e se fosse così ti dico che ne rimarrei molto sorpreso. No, dobbiamo scavare su dell’altro. Okay, mi prendo Paolo e mi metto alla caccia>>.
<<Mi sembra una cosa giusta. Qui rileveremo tutto. Sarà un lavoraccio: il fine è di trovare un dna compatibile con quelli trovati sugli indumenti delle vittime. Se un capello, un pezzo d’unghia in questa stanza, ci da lo stesso dna di un altro pelo trovato su un indumento delle vittime…..allora siamo a cavallo. Insomma, sarà una prova di ferro in tribunale>>.
<<Okay, ma bisogna, comunque prenderlo. Allora vado, buon lavoro>>.
<<Anche a te Febbraio, e mi raccomando fai attenzione, con quello non si sa mai>>.
<<Non ti preoccupare, a me mi ammazzerà la pressione e non un colpo di pistola. E poi dobbiamo farci i pomodorini a casa, sempre che mia madre non si sposa. Per come si sono messe le cose. Comunque lasciamo stare, Paolo, andiamo per favore>>.
Il ragazzo saltò su se stesso e preso da un colpo d’ansia si lanciò di scatto alle spalle di Febbraio.
Mangiarono le scale come degli esagitati, in verità quello che faceva il primo così di conseguenza si comportava il secondo.
All’improvviso si apre una porta. Sandra non riusciva a tenersi dentro come un coniglio bagnato. Il cervello lavorava incessantemente; pensava alla visita di Michele, al ghigno del diavolo, le parole sprezzanti…. Poi alle domande sul piccolo. In un primo momento aveva pensato ad una pazzia, che l’uomo fosse marcio di pazzia, la pazzia immaginaria di chi non sa che cosa fare tutto il giorno e poi si crea il personaggio. Ma ora i carabinieri, tutto quel trambusto: il cuore la portava fuori sul pianerottolo, e lei assecondò l’istinto.
<<Scusate che è successo?>> chiede lei.
Febbraio la guardava distratto come chi ha fretta, voleva tagliare corto per organizzare una ragnatela di controllo in tutta l’estremità della città. Ma poi vede gli occhi spenti di Tommaso e qualcosa di misterioso lo convince ad interrogare la donna.
<<Conosce Michele Matthaus, signora?>>
<<Michele Matthaus certo... che ha fatto?>>
Il bambino strattonava la madre, la paura cresceva, non riusciva a capire di che cosa, ma aveva paura. Voleva proteggere l’amico da qualcosa di terribile che si stava facendo avanti, un terribile evento. Il suo cuore di bambino lo dettava.
<<Vieni dentro mamma!>>
La donna era indecisa sul da farsi, ma poi la ragione la spingeva a rintanarsi in silenzio, la giusta soluzione se vuoi sopravvivere in periferia. Parlare non è mai conveniente in posti dove l’illegalità è il pane quotidiano. Allora Luigi insisteva.
<<Ha visto recentemente il signor Matthaus? Signora, mi dica!>>
<<Sì poco fa... oggi è mercoledì, il mercoledì va sempre in chiesa ad aiutare Padre Camillo. La chiesa di S.Rita, è proprio dietro l’angolo. Ci andava anche prima che venisse a vivere qui. Da qualche anno che frequenta la parrocchia. Ma, mio Dio, cosa ha fatto? Un criminale nel nostro palazzo, vicino ai nostri bambini. Si, prendetelo è nella chiesa di padre Camillo>>.
A quel punto Febbraio e Paolo erano spinti da una forza irrefrenabile. Dovevano correre. Sandra tirò un ultimo fiato dai polmoni, aveva ancora qualcosa da dire.
<<Aspettate, mio figlio, credo che quel uomo con mio figlio abbia...>>
<<Non ora, signora, parli con capitano Marchesi, di sopra!>>
Tommaso aveva capito. Capito che la madre aveva consegnato alla legge Michele, nonostante fosse ancora piccolo. In pochi giorni aveva compreso la violenza, la cruda violenza che la giovane carne può ricevere così facilmente da chi invece dovrebbe difendere i bambini: gli adulti.
Quel mondo non l’aveva scelto lui. Poi il tradimento della madre, perché lei aveva tradito una persona a lui cara. L’unico amico che avesse avuto. Gli altri bambini gli ridevano dietro e anche in faccia, senza pietà, mentre Michele lo amava.
Ora la madre aveva tradito l’unico suo amico, la polizia gli avrebbe fatto del male, picchiato magari, e poi in galera.
Ricordò le sue parole che erano state sprezzanti nei confronti della donna, rifiutò di crederci, ma adesso gli ritornavano in testa con la stessa insistenza di una campana.
“Lei è come tutti e ti farà del male, sarà colpa sua del male che riceverai dalla vita…”
Già, il male, il male terribile.
Tommaso, prima di rientrare in casa, la fissò, preciso negli occhi e lei lo notò. Lo sguardo assente di quei giorni si era trasformato in un luccichio forte ed intenso, lucido come uno specchio dove non si può penetrare, ma solo vedere la propria immagina riflessa.

Le pattuglie si erano fermate davanti alla chiesa da decina di minuti, erano due ed avevano seguito Febbraio e Paolo che si trovavano in un’altra macchina. Il carabiniere scelto, Gidonzi, aveva una quarantina d’anni e da più di dieci militava nel RACIS, con un’esperienza sulla strada che da sempre l’aveva distinto. Si occupava del lavoro d’azione e non del lato scientifico.
Il collega di turno era giovane, si chiamava Palillo, di Roma da intere generazioni. Aveva paura. Gidonzi invece aveva girato l’Italia come farebbe la mano di una sarta dentro il calzino per trovare il buco, di fatto dai suoi accenti, corretti dal tempo, era difficile capire da dove venisse. Lui diceva d’essere sardo.
Luigi li aveva chiamati con sveltezza, ordinando loro di seguirlo di carriera, tralasciando qualunque altra operazione, appena giù dalla palazzina del quartiere S.Rita.
Ora, che erano arrivati davanti alla chiesa, scese dalla macchina e si accostò alla loro. Aveva aspettato qualche secondo per studiare la situazione, ma nulla si muoveva, nemmeno le mosche. Insomma era il momento di muoversi. Quella calma era irragionevole.
<<Okay, signori: entriamo! Sento che non è il caso di aspettare!>>
<<Già, ha ragione, non è più il caso di aspettare: lo stronzo è uscito proprio ora e tutto sporco di sangue. Sempre che non sia pomodoro!>>
Gidonzi dopo aver parlato con Febbraio, si lanciò dalla macchina e lasciò cadere la radio dove capitava. La mano da sola arrivò al foderino della pistola e la bocca in altrettanta autonomia lavorò le frasi della sua intera vita.
<<Mani in alto, Carabinieri!>>
Non erano troppo lontani, anche se ormai Michele non era più vicino a niente se non al suo stato d’onnipotenza.
Palillo cercava ancora la sua pistola, poi doveva trovare la maniglia della porta, aggiustare bene gli occhiali sugli occhi, attraversare mezza macchina, perché si trovava di lato al marciapiede, infine affiancarsi al collega Gidonzi. Era inesperto.
<<E’ arrivata la cavalleria. Evidentemente siamo proprio arrivati alla fine della storia >> rispose Michele con una voce sicura e definitiva.
<<Ho detto di tenere le mani bene in vista>>.
Gidonzi era agitato. In molte situazioni l’esperienza non è mai abbastanza, e quello era un caso calzante alla riflessione.
<<Sono in vista, Carabiniere. I giochi sono giunti al termine, è ora di tornare a casa, non ho intenzione di proseguire. Sono stanco, molto stanco. Ho le lacrime agli occhi: è tutto appannato, come se mi trovassi in sogno. Ho ucciso Padre Camillo, ha chiesto pietà, ma non è servito. Purtroppo non è servito>>.
<<Stronzo, se ci tieni alla pelle, porta le mani bene in vista>>.
<<Gidonzi, stia calmo! Ci serve più vivo che morto. In casa sua potrebbero esserci poche prove, invece una confessione sarebbe la cosa migliore>>.
Michele dall’alto delle scale parve che volesse nuovamente parlare, e così fece. Un Dio senza cura del prossimo futuro.
<<Signori, noi abbiamo un patto!>>
<<Non abbiamo nessun patto. Non provare a fare scherzi!>> rispose Gidonzi, mentre Palillo si era calato in quintali di cemento liquido appena quello aprì bocca, per la paura. Paolo invece era ancora in macchina e aspettava gli eventi per un’eventuale azione di copertura.
<<Certo che abbiamo un patto. Mi sono consegnato senza resistenza e voi in cambio lascerete che mi goda la vittoria. La mia vittoria. Questo è il patto! Potevo piantarvi una pallottola in testa, oppure scappare, ma mi sono consegnato, perché tutto doveva finire. Quindi ora restiamo fermi, mentre tutta la gloria mi sarà scesa addosso come un’incoronazione. E’ molto semplice, basta che rispettiate le regole e tutto filerà liscio come l’olio sul pavimento>>.
<<Testa di cazzo,>> riprese Gidonzi che riusciva a sudare in pieno inverno <<non fare giochetti con me, perché hai bussato alla porta sbagliata. Non ho mai mancato un bersaglio in vita mia>>.
<<Gidonzi, se non sta zitto la sospenderò. Mi faccia trattare, non siamo qui per un western. Stia calmo! Okay, amico abbiamo un patto dicci quello che vuoi>>.
Luigi aveva cercato una strada diplomatica, in più aveva ripristinato un senso di gerarchia che Gidonzi, preso dalla foga, aveva dimenticato.
<<Ah, ah, ma non puoi uccidermi, poliziotto. Devi portarmi dai tuoi capi sano e salvo, perché devono interrogarmi. Hanno bisogno di conoscere i particolari della storia. Nella loro testa è ancora tutto confuso. Capisci, hanno bisogno della preda viva. Quindi in mano non hai un cazzo, sei impotente come un bambino con la pistola ad acqua. Giochiamo un’altra mano>>.
Luigi aveva capito di aver intrapreso la strada giusta e in secondo luogo compreso anche che l’uomo non era un pazzo scatenato, anzi tutt’altro.
Michele da quel momento aveva un’aria più attenta, lo sguardo passivo e disorientato di prima era scomparso del tutto, lasciando posto alla sua solita espressione di violenza e risoluzione. Lanciò uno sguardo diretto a Paolo e a Palillo che erano rimasti in macchina, intuendo che quella calma covava del marcio.
<<Quei due in macchina perché non escono? Non vi muovete, ragazzi. Non lo ripeterò un’altra volta. Voi due restate con i piedi ben puntati nell’asfalto, oramai siamo all’epilogo. Le cazzate che ha detto il pallone gonfiato, mi hanno nauseato come merda di vacca. Quello che accadrà nei prossimi minuti è irrilevante per quanto mi riguarda. Pensate di avermi stanato, beccato, ma non è come credete. Perché sono diverso, ho creato una diversità, il criminale che la storia non ha mai visto. Ho creato la continuazione.
Sono la terra e dentro di me è seminato il frutto malvagio del domani. Certo, ora è piccolo, fragile, ma lo sarà ancora per poco, tra qualche tempo punirà il mondo per la sua arroganza. La Regina SCOLOPENDRA che ho nascosto tra queste mura, vivrà ancora>>.
Si era alzato in piedi, con le mani tese verso l’alto, come un predicatore acceso e attento che tutto il pubblico mostrasse attenzione. Gidonzi allo scatto del suo obiettivo aveva sfiorato il grilletto, ma poi l’esperienza e sale in zucca gli avevano evitato di perdere la concentrazione.
<<Resta seduto, altrimenti faccio schizzare quella tua testa di merda dappertutto. Ora basta, con tutte le tue stronzate! Palillo, chiami la centrale e faccia arrivare rinforzi, questo è pieno di roba come un uovo!>>
<<No, Palillo resta fermo se ci tieni a dormire nel tuo letto e non in cassettone dell’obitorio, questa sera. Non vi ripeterò più le regole del gioco, ho bisogno di qualche minuto per glorificarmi. Tutta la gente di quartiere sbircia dalle finestre quello che sono riuscito a fare: ho ucciso il loro Padre Camillo, e il Dio che tanto ha cantato non ha mosso un dito per salvarlo. E’ finito come un sorcio, un lurido sorcio di fogna. Ha implorato pietà: “salvami la vita, ti prego”.
Un cane traditore che ha buttato tutto il suo Credo nel cesso purché gli risparmiassi la vita>>.
Gli occhi raccoglievano sangue dal corpo e dal colore parve che gli fosse arrivato tutto in testa. Un cranio avvolto dal vento gelido di dicembre. Gidonzi era preda da una tensione attiva, ipnotizzato da quell’asfissiata situazione, ma allo stesso tempo controllava i movimenti dell’agente Febbraio che aveva un’aria terribilmente castigata nei suoi confronti.
Il criminale continuava a parlare bene, ma con l’intensità “dell’ultimo discorso”, come un ballerino di classica che entra in teatro e concede il meglio di sé perché conosce la realtà dell’ultima esibizione. La realtà della sua carriera oramai al termine. Paolo allora, improvvisamente, si lanciò dalla macchina come per sorprendere l’assassino da quella calma glaciale che teneva tutti immobili. Ma Michele aveva avuto una soffiata dal suo istinto e appena la portiera cigolò, prese la pistola e sparò senza mirare in quella direzione.
I ragazzo si accasciò e prima che toccasse l’asfalto l’urlo di Luigi arrivò al cielo. Poi seguì lo sparo della sua pistola, che si spense nel torace di Michele, come il segno fine di tutta la storia. 
Ora però nessuno aveva più tempo di pensare, Michele Matthaus fissava gli ultimi uomini che avrebbero incrociato la sua strada, assaporando saliva rimastogli in bocca, forse per convincersi d’essere ancora in vita.
Il silenzio. Non un silenzio qualsiasi, ma il silenzio. Puoi sfuggire a tutto nella vita ma non al silenzio dell’ultimo atto. Quello è particolare e anche se non lo hai mai annusato in vita, quando arriva sembra di conoscerlo come una cosa intima. Poi la staticità. Cinque cuori a battere più del dovuto, più del consentito. L’uomo raggiunge la sua immensità nel distruggere un proprio simile.
Michele però aveva ancora la forza di ridere, era così, in ogni cosa voleva essere il migliore, anche se una vampata di calore gli prese lo stomaco.
<<Bene, poliziotto, non c’è male! Pensavo che fossi una schiappa, ma hai fatto un buon lavoro>>.
Si passò la mano sull’addome e gli diede un’occhiata, prima di ridere ancora come un bambino di fronte ad un nuovo gioco. Le sirene dei rinforzi intanto cominciavano a farsi sentire, e il quartiere chiudeva le finestre allo stesso modo della tenda che chiude uno spettacolo al teatro. Qualcuno aveva chiamato la polizia sbirciando dalle tapparelle. Michele si sedette nuovamente sulle scale.
<<Mi ha colpito! Ma non è una sconfitta perché comunque non mi sarei mai concesso vivo. Ci ho ripensato, il piccolo Tommaso ha le giuste indicazioni per trovare la strada e mi uccido così sarò io a vincere>>.
Portò la pistola alla tempia.
<<Una volta qualcuno disse: “L’uomo non è niente! Ciò che conta è l’opera ” ! Credo di aver fatto la mia parte, mia Regina>>.
Fu il terzo proiettile. Le sirene intanto erano ben percepibili.





Luigi aveva preparato la valigia con fretta, voleva tornare a casa. In ufficio al RACIS si era trattenuto il dovuto: qualche saluto a Marchesi che tutto sommato dimostrava soddisfazione per com’erano andate le cose. Paolo era ancora in ospedale, ma se la sarebbe cavata con poco.
Piovano in quei giorni si pavoneggiava con magistratura e giornalisti, qualche perdita sul campo era il prezzo del gioco che certamente non avrebbe leso alla sua meravigliosa operazione. Il rione S. Rita s’interrogava ancora su quella terribile storia che aveva scosso tutta la comunità, e soprattutto per la terribile scomparsa di Padre Camillo.
Luigi voleva dileguarsi. Al sud l’aspettava la madre perché lo voleva presente per una sorte di fidanzamento ufficiale che aveva organizzato con il suo compagno. E tra qualche giorno era Natale. Era disgustato, ma si ricordò che molte volte è meglio fare qualcosa per i propri genitori quando sono in vita che piangerli ipocritamente al cimitero. Portare fiori sulla tomba ogni domenica serve a poco e allora si decise a partecipare alla festa, magari anche con un vestito nuovo. Mentre rovistava a casaccio, però, Marchesi gli fece di nuovo visita.
<<Porca miseria, se fossimo arrivati un poco prima…. magari>>.
Luigi dopo un rapido sguardo all’ospite inatteso, continuò a rovistare.
<<Se fossimo, ma non è stato così. Il prete è stato sacrificato purtroppo. Per fortuna Paolo se la caverà con poco, anche se qualcuno ha calcato un po’ la mano>>.
<<Vuoi dire che è colpa di Gidonzi? Maledizione!>>
<<Non voglio dire niente, è andata così, purtroppo. La verità è che nel nostro lavoro si vedono un sacco di vittime sul campo e forse un giorno toccherà anche a noi. Tutto qui, perché è il nostro schifosissimo compito>>.
Marchesi appoggiò la mano sul divano lievemente,  ma quello che gli passava in testa e nello stomaco era tutt’altro che pacato.
<<Eppure io non ti vedo convinto, c’è qualcosa che non và. A cosa pensi?>>
<<Effettivamente c’è un cane che mi rode nello stomaco e certamente non sarei partito prima di parlare con te. C’è qualcosa di sospeso in questa storia. L’emulazione>>.
<<Ti riferisci alla morte di Stefania Giacobini?>>
<<Esattamente, bravo!>>
Luigi continuò a sospirare, poi si riversò sul suo pacchetto di sigarette in cerca di un rifugio sicuro e protetto.
<<Ricorderai benissimo, caro Marchesi, di quei residui epiteliali estranei alla Giacobini, certo che li ricordi è tuo campo….>>
<<Si la cosa non l’ho dimenticata, naturalmente. Volevo discuterne con te appena si sarebbero calmate le acque, ma poi ho visto queste valige e ti confesso che sono rimasto di sasso. Che c’è, hai fretta?>> chiese  Marchesi.
<<No, non ho fretta. Chiedi il mandato al magistrato Gonfalonieri per procedere all’esame del dna sul marito e vedrai che farai bingo>>.
<<Ma dai….il marito? Perché>>.
<<Non lo so il perché, ma sono pronto a scommettere. Ricordi l’aneddoto che ti ho raccontato di quando ero piccolo?>>
<<Se non mangiavi la brodaglia di sangue di cavallo e tua madre la trovava  ancora nella ciotola, capiva che non l’avevi nemmeno assaggiata? Era evidente>>.
<<Già, è evidente! Com’è evidente che nessuno poteva fare la posta nell’ospedale se non un parente stretto ed aspettare il momento propizio>> rispose Luigi con l’aria soddisfatta.
<<Pensandoci il tuo discorso non fa un grinza! Chiederò subito il mandato. Certo! Il marito fa finta di prenderle l’acqua, le asciuga la fronte, poi qualche carezza, ma appena si presenta l’occasione l’ammazza. Poi aspetta qualcun altro che dia l’allarme>>.
<<Appena si presenta l’occasione…la strangola. Se mangi la ciotola è vuota. Altrimenti, caro Marchesi, non hai mangiato. C’è poco da girarci intorno. Okay, accompagnami alla macchina che tra qualche minuto mi parte il treno>>.
<<Non c’è problema, collega, appena torno su chiamo immediatamente il magistrato>>.
Luigi trovò la macchina parcheggiata in un angolo buio e poco frequentato del parcheggio con un autista che per la prima volta non era Paolo.  Si emozionò, ma non lo diede ad intendere, anzi sdrammatizzò.
<<Diavolo finalmente farò un viaggio tranquillo, non c’è quel rompiscatole di Paolo ad accompagnarmi. A proposito, Marchesi, ma quando eri a lavoro in casa di Michele Matthaus non è che per caso è salita una bella donna a dirti qualcosa?>>
Marchesi divenne arcigno e pensoso allo stesso tempo. Poi rispose con immediatezza.
<<Che cosa è uno scherzo? Una donna? No, non è salito nessuno…>>
<<Va bene, lasciamo stare, ormai è una storia chiusa. Voleva dirmi qualcosa, evidentemente inciuci di quartiere  riguardo Michele. Sai, tutti hanno manie di protagonismo quando c’è polizia e televisione. Beh, buone cose e stai in gamba, non ho intenzione di ritornare. A me non va di lavorare con i carabinieri. Oh, e tieni il telefonino acceso che t’invito per i pomodorini all’insalata con il pane biscottato>>.
<<Ci puoi contare e se non mi chiami tu, sarò io a chiamarti. A presto. E grazie per la solidarietà. Sei stato un amico>>.
Luigi si scrollò le spalle, lasciando sull’asfalto le valige.
<<Mi ringrazi per la solidarietà? E quale?>>
<<Quella che ti ha evitato di dire che sapevi dove lavorava Michele Mattheus prima che interrogassi il test Gina Tolga. Sei un pessimo attore, ma un buono amico. Ci sei arrivato da solo, ma se l’avessi detto sarei passato per un incapace. Mi sarei giocato la carriera. Mi dici come hai fatto, però?>>
<<Non so di cosa stai parlando!>>
<<Ecco di nuovo. Febbraio, sei un pessimo attore. Menti ancora. Allora, dimmi come hai fatto. Il cervello ora è pulito, non bevo più. Non puoi fregarmi>>.
<<Okay, colpito ed affondato. C’ero arrivato con delle ricerche che avevo fatto in quei due giorni d’assenza. Non ero malato. E quindi ho trovato il punto di unione tra le vittime, anzi  è meglio dire che Michele Mattheus le ha scelte per una loro richiesta specifica oltre che per la loro professione>>.
<<Cioè? Mi stai facendo venire l’acquolina in bocca!>>
Luigi accese una sigaretta. E una nuvola di soddisfazione  era uscita dai polmoni arricchendo, se possibile, il suo atteggiamento. Erano troppe al giorno, doveva smettere.
<<Le fatture! E’ l’incubo di tutti i professionisti per scaricare le tasse. E Michele ha ucciso chiunque n’abbia fatto richiesta mentre collaborava nell’amministrazione dell’albergo. Da quel documento poteva avere ogni tipo d’informazione. Indirizzo, generalità e anche numero di telefono. Anche se andavano a scopare, quella fattura non era compromettente perché il posto era rispettabilissimo. Quindi lui le ha scelte con questo criterio per lasciare una traccia, in modo di attivare il gioco. Sesso e fatture. Per questo motivo erano tutte professioniste, perché questa categoria dimentica di mettersi le mutande, ma non di farsi fare la fattura.  L’Albergo Nazionale è rispettabilissimo, non è una bettola, e bisogna pur dormire quando si è fuori città. Ma la Giacobini poteva evitare di dormire a Roma perché vicina a casa, Spigno Vecchio. In effetti dal suo commercialista non c’era nessuna fattura del Nazionale. Quindi mi sono insospettito.
 I resti epiteliali sul collo della Giacobini, abbiamo un’ultima carta da giocarci. Io ora me ne vado a casa, vorrei passare il Natale con la mia famiglia. Tu, dopo avere incastrato lo stronzo, fai altrettanto che hai bisogno di un po’ di calore umano>>.
<<Lo sai Febbraio che avresti potuto rovinarmi per sempre? Invece ti sei comportato diversamente! Tutto sommato, non sei tanto stronzo. Resta comunque il fatto che io ho fallito e causato la morte di tante donne>>.
<<Non rimproverarti, Marchesi! Sei fossi arrivato quattro mesi fa, non avrei scoperto un bel niente. Se ci sono arrivato è perché le cose si trovavano ad un punto maturo. E’ tutto okay e tu sei un buon poliziotto. Onesto e meno canaglia di me. Abbi solo fiducia in te stesso. Ora però devo andare, altrimenti la storia tra  noi due va a finire a telenovela.
Ciao Marchesi e stammi bene>>.
<<Altrettanto, agente speciale Febbraio>>.





Dopo qualche settimana, il Gazzettino di Spigno titolava:
“Uccide  la moglie facendo cadere la colpa sul serial killer Michele Matthaus“
Giovanni Borchia, noto architetto di Spigno Vecchio, uccide la moglie facendo ricadere la colpa sul serial killer delle donne.


Il piccolo Giacomo Borchia e Daniele Borchia non capirono quello che effettivamente successe alla loro famiglia.  Né capirono perché il padre avesse fatto quel terribile gesto. Erano solo a conoscenza che da quel preciso momento sarebbero rimasti soli, e il mondo degli adulti li aspettava al varco.
Dello stesso avviso era anche Tommaso, che chiuso nella sua stanza, pensava costantemente alle parole che il suo amico Michele gli aveva sempre riferito.
La panchina nel parco in Via Carducci, dove c’era qualcosa che lo aspettava. Qualcosa che sarebbe rimasto nascosto ancora per poco.







     





  
   
 















            
             
  









                  
                       
   

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