Non c’è più musica, la corista, sfinita, sorseggia la sua cena liquida in religioso silenzio, nell’aria regna la putrefazione. È l’alito degli instancabili fumatori.
Questa sera quel ragazzo non tornerà, insegue la sua chimera nei fondali più profondi del suo animo, la raggiungerà in un altro mondo, accessibile solo al cuore in sangue.
Nei suoi infiniti bicchieri rivede l’uomo che lo picchiava da bambino, i recenti rifiuti di un angelo, che, nonostante il male fatto, è ancora amato.
Dalla vetrata del locale, intanto, s’intravede un corteo funebre che richiama l’attenzione dei clienti. “Vivere una vita senza indigenza e poi uscire dalla porta secondaria”, è il commento unanime dei presenti.
Tutti gli sconosciuti allontano il cappello dal capo, al morto è dovuto rispetto, ora e forse non in vita.
“Qualcuno ricorda chi è quel concime da cimitero?” chiese un vecchio che si era attaccato con le labbra alla sudicia vetrata.
“Un grande condottiero, è stato un grande condottiero; non ha mai abbandonato una causa, le ha sempre sostenute contribuendo al loro insuccesso. Un vero eroe, è stato un vero eroe, nonostante il destino gli abbia riservato solo gli avanzi dei grandi uomini; Dio mio, ha sempre lottato e perso tutte le battaglie”.
“Un vero eroe, è stato un vero eroe” rispose un altro uomo altrettanto avanti negli anni.
In questo posto si possono trascorrere le grigie giornate, momenti di debolezza, di depressione quotidiana, nessuno individuo conosce un altro se non per le sue capacità di essere uomo, tutto il resto è irriverente.
Sostanzialmente un essere vivente può definirsi tale in quanto è un essere che vive, ma la realtà non è più lucida delle vostre menti offuscate: l’umanità non è altro che una continua ricerca di risposte per creare altre domande.
Qui lentamente la passione dell’inerzia avvolge il corpo: movimenti lenti cullano i sensi, non abbiamo bisogno di risposte perché, in questo luogo, non formuliamo nessuna domanda: finalmente siamo entrati nel mondo, attraversate tutti la soglia e lasciate alle spalle il rumore.
“Il cuore del mio nemico è posto sopra la mia testa, con brevi interruzioni lascia cadere gocce di sangue sulla scatola cranica del mio cervello; la goccia si apre sul piano rugoso e poi in mille petali si lancia lungo le guance, lasciando alla vischiosa lingua il compito di raccogliere il cibo. Ero debole, minuscolo di fronte alle sue possenti mani che, in sintonia perfetta, si congiungevano sul mio viso violentemente, e non bastava una volta, lo ripeteva fino a quando le aveva bagnate con il sangue del mio naso. Con sollecitudine, così, fallo ancora e non ti fermare, bastardo!” Mentre parlava stringeva il bicchiere con tanta forza che sembrava volesse soffocarlo, lo chiamiamo il poeta “Non ho bisogno di un panino bianco perché mangio il tuo sangue”.
Molte persone attraversano la strada in questo momento, le loro indicazioni riferiscono che attraverso le pareti bianche non è possibile vedere la collina posta prima della montagna, al centro della valle, tra fiumi, nella pianura centrale, confinante la costa del tratto montuoso: eppure qualcuno dei presenti racconta che se si attraversa il bianco si può ascoltare l’acqua dolce che trasporta immense entità di sale, il battito della preda che è in procinto di attaccare il suo cacciatore, vedere la pioggia orizzontale.
Le gocce, sorelle parallele, avvolgono il corpo inerme senza sfiorare la pelle, proprio quando l’immagine dell’irrealizzabile si presenta nitida e comprensibile.
Da quest’angolo limitato e angusto del luogo, guardo i vecchi, la corista, le bottiglie nel mobile del bancone, il giovane poeta e ricordo il mio baule dove ho nascosto una fotografia logorata dal tempo con l’immagine di lei ancora giovane nella sua eterna bellezza, le piccole ma significative occasioni mancate, le scelte errate oscurate dalla debole personalità e l’instancabile orologio che continua inesorabile il cammino predestinato.
Fuoco per dimenticare. E’ quello che penso, quando butto giù l’ennesimo bicchiere. Poi improvvisamente una voce.
“Voglio condurre il mio esercito nell’ultima battaglia: quanti soldati sono a disposizione della causa incompresa? Quanti riescono a vedere la pioggia orizzontale, senza ricercare la sua ragione esistenziale?
Abbiamo nuovamente rinnegato i nostri propositi; non chiediamo risposte perché non abbiamo nessuna domanda” concluse il condottiero risorto dal mondo degli inferi.
Intanto la corista, rifocillata l’anima con liquido di quaranta gradi, si avvicina al palcoscenico di mogano, le carnose gambe sovrastano i piccoli gradini che la portano fino all’essenza della sua vita.
Lo sguardo sensuale è rivolto ai compagni di viaggio, che come una loggia discriminante, escludono gli spettatori con nauseanti atteggiamenti, evidentemente per concordare la musica da distribuire. La chitarra comincia il soliloquio, aspettando che la calda donna si lasci penetrare dal profumo del peccato: improvvisamente un’intonazione acustica avvolge in una miriade di colori il grigio opprimente delle mura.
Dai lati dell’infinito si raggiunge l’esile sensibilità di un lato definito: niente è più malefico del bene atto alla conquista del paradiso.
Il condottiero attraversa la soglia della stanza interna, seguito dall’odore della sua guerra, si siede al tavolo e comincia a bere. Gli occhi lucidi, i ruvidi lineamenti, le mani tremanti raccontano di una sconfitta nuovamente presente: anche la morte ha rifiutato sua anima. Caronte non aveva remi per lui.
Tutti devono da parecchio.
Improvvisamente il cielo della dimora si plasma di forti colori, l’atmosfera preannuncia la visione del confine, ecco l’immensa parete dell’impeto primordiale, il profumo di maternità appare così accessibile.
Eccitati dalla piacevole visione del mondo promesso, si comincia a scivolare verso l’alto, calpestando i milioni di capezzoli che si trovano sulla superficie dell’arroventata muraglia.
La fredda aria dell’altura taglia la pelle vischiosa del volto, trasportando il sangue verso la terra scabra; l’esistenza trascinata lascia brandelli di carne alla strada vorace, il passaggio alla pioggia orizzontale è vicino.
Le candide ombre della sensibilità, del rispetto e della tolleranza cominciano a prendere vita al cospetto dello sguardo attonito dei passeggeri; esse sono le chimere della pioggia verticale.
Improvvisamente, però, lunghe strade si avviluppano come un groviglio di arterie viventi, lasciando ai puerili occhi tenebrose immagini: ecco la frontiera tra la pazzia e l’irreale realtà.
Il duraturo cammino sembra malinconicamente giunto al termine, il punto di partenza è visibilmente definito. Tutto è finito. L’uomo del castello vuole chiudere.
Il sangue nasce ancora dalle fresche narici deflorate, l’uomo è deriso nuovamente per le sue sconfitte, il fuoco non è riuscito a bruciare il baule dei ricordi, la corista ha stonato proprio alla fine, il recensore continua a biasimare la mancanza di una logica tra queste righe.
La pioggia, ineluttabilmente, riprende a cadere dall’alto.
Dal mio angolo angusto, chiedo un’altra bottiglia all’uomo del castello, ubriacandomi di fantasie per scacciare la realtà al di là della soglia. Alzo gli occhi e spero nella sua benevolenza, in casi estremi anche nella compassione.
Rafael Navio
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